Vieni, mamma. Andiamo. Ti porto io la borsa. Ti prendo sottobraccio, come piace a te. Che salita che ci tocca, hai messo anche le scarpe belle, quelle della Messa, ma lo sai che poi magari ti scappa il piede. E la caviglia ti fa male. Abbiamo chiuso la porta dell’ambulatorio? Sì, mi pare.
Dove vuoi andare ora? Dal fruttarolo, buona idea, ché prendiamo l’ananas. Dal Peppino non entriamo? Sì, sì, mamma fammi l’arrostino, già che sono qui mi fermo a cena. Due patatine novelle, cotte al forno, con tanto olio, tanto alloro nella teglia, quella piatta, che le fa anche abbrustolire. Ma ti ricordi quando ti volevo aiutare in cucina? Che dovevo pelare tutto io, per forza. Quella volta che ti sei allontanata un attimo e al tuo ritorno hai trovato le zucchine tutte rosse. “Ma non serve il pomodoro, Giorgio!” E invece mi ero pelato il pollice, cretino. Che schiaffo, mamma! Che mano pesante. Ce l’hai sempre avuta. “Menomale che sei tu da solo. Che ho buttato lo stampino!” mi dicevi.
E io ero felice, di essere solo. Il tuo unico figlio.
Sei stata così forte, mamma. Quando il tumore ti ha portato via quell’uomo dentro la poltrona, due pantofole, un bicchiere di Braulio e una fettina di crostata. E poi anch’io sono emigrato, sono andato nei palazzi grandi di Milano, volevo fare l’ingegnere. E adesso passo tanti mesi là, nelle piattaforme. A parlare in mezzo al mare col petrolio, sempre solo.
Ce la fai, mamma? Ti pesa un pochino la salita adesso? Ma no, non sei anziana. Sei la mia mamma.
Cosa ha detto il dottore? Ma niente, mamma, cosa vuoi che abbia detto?
Sei una bestia grama, hai la pelle dura. Non hai nessun tumore. Ma no, ma no che non muori.
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