
Il vento della tonnara.
Il vento mi fa volare i capelli. Ho uno scialle nero sulle spalle, per proteggermi dall’aria carica di sale. Appoggio passi leggeri sul lungomare che porta alla vecchia tonnara, imponente e fatiscente.
Una bellezza estrema che decade. E diventa meraviglia.
Stasera cammino ad Avola. A destra il cielo grande, che si appoggia su un mare calmo, ma selvaggio. A sinistra macchine e furgoni, motorini, fari accesi e parole urlate tra gli amici che si incontrano per strada. Capannelli di gente multiforme, del posto, che dentro il molo parla. E aspetta. Due ragazzi si abbracciano nel vento, perché in due non si vacilla, in due la forza di resistere si trova. Lui chiede baci. Lei ha lo sguardo fisso e lontano, sull’orizzonte.
Seduti su un muretto basso, a ridosso della spiaggia desolata e struggente, c’è una coppia di signori anziani. Quante volte si sono amati qui, su questo approdo. Quanti sogni hanno raccontato alle onde. Alle nuvole.
Adesso lui guarda lei, che parla al telefono. Uno di quei cellulari con i numeri grandi come pollici, che non si possono sbagliare.
“Tanto un numero solo deve fare”: quello della figlia.
Che vive lontana. Che non torna in Sicilia volentieri. La figlia che insegna biologia marina all’Università di Plymouth, Sud dell’Inghilterra, lei che è stata una delle prime persone di questo piccolo paese a laurearsi a Catania. Oggi compie quarantotto anni. Festeggia al pub con gli amici, con la sua famiglia bella. Una famiglia inglese.
Ad Avola è ritornata quasi undici anni fa. E ha concepito qui il suo secondo figlio. I nonni, però, non l’hanno ancora visto in faccia. Si sentono soli, adesso, questi due vecchi che parlano al tramonto, dentro un apparecchio che non sanno come spegnere. La figlia deve essere stata veloce, sbrigativa. Deve aver parlato quel suo inglese mezzo italiano, la lingua raffazzonata di chi non vuole perdere tempo.
Così la donna, adesso, ha una lacrima che le riga la guancia.
Un taglio salato, un solco nella pelle spessa di elefantessa paziente. Stai bene, figlia. Noi ti amiamo. Ti amiamo da quando ti abbiamo trovata.
Il mare, lui. Il mare ti ha portata. Guardavamo la spiaggia abbracciati, sposati da qualche anno. E vedemmo un ammasso di stracci. Era un tramonto scuro di maggio.
Negli stracci che trasudavano salmastro c’eri tu. Una perla portata dai flutti, a una coppia che un figlio suo non lo poteva avere. E pregava tutte le sere che l’amore disperato si facesse carne e sangue.
Ti tenemmo con noi, avevi poche settimane. Euforia. Gratitudine. Segreto.
Passavano gli anni. E tu non fosti mai con noi.
Tu sapevi, lo hai sempre saputo. E così il mare ti ha ripreso.
In quest’ora di tramonto che ci abbatte, non è il telefono che ci fa sentire vicini a te. È questa spiaggia. È questo odore. È l’incedere dell’onda, che in fondo tutto fa tornare.
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