Mi sono schiacciata il pollice tra due carrelli. Incidenti del mestiere. Non ho ancora la manualità dei miei colleghi che lo fanno da un po’. Mesi o anni. C’è Raja, che ha quattro bambini e una moglie ancora incinta. Perché a loro la mattina presto piace far l’amore. Poi Amin, che prega sottovoce mentre sistema le lattine di legumi. Non mangia carne durante il Ramadan, ma esagera con l’aglio e ormai l’odore è fisso lì. Appena sotto i pori della pelle. Mirko, invece, studia al Politecnico e suo padre ha avuto un ictus. Per questo lui lavora qui. E quando ritira le scatole di cartone, le impila preciso. Per forma e dimensione. Da ingegnere.
Maria, che sono io, è una signora silenziosa sui cinquant’anni.
Che ha perso il lavoro come responsabile ufficio acquisti, quando la ditta storica di Santhià è stata comprata da un’efficiente multinazionale danese.
Mio marito si era abituato bene: guadagnavo io, tanto. E lui faceva il barista in società con il cugino: lo stipendio fisso era il mio. Quando ho perso il lavoro, lui mi ha guardata torvo. E stanco. Come se l’avessi tradito. Una frase sola. “Fai tu. Io il bar non lo mollo”.
Va bene. Faccio io.
Non trovo di meglio che l’Esselunga di Viale Marelli.
Aspiro alle casse. Ma per ora posiziono la merce sugli scaffali e metto a posto i carrelli nel parcheggio. Così mi schiaccio le dita.
Lo vedono tutti. Che qui non c’entro niente.
E la cosa che mi fa più male è notare negli specchi la ricrescita bianca alle radici, perché dal parrucchiere due volte a settimana non posso andare più.
E poi le mani. Secche e disperate. Dopo anni e anni di laccatura impeccabile, eccomi con lo smalto scrostato. Di notte non dormo. Un po’ ringrazio Dio per non aver avuto figli, un po’ vorrei qualcuno per dividere questa sconfitta, questa umiliazione. Con mio marito non divido nulla, solo il letto. Lo sento russare. Tranquillo. E di giorno mi schiva con una delicatezza astuta. Che non gli conoscevo.
Non leggo più. Non vado a teatro. Le mie amiche non le chiamo. Mi vergogno.
Metto a posto i carrelli e basta. Solo quello.
Ieri sera ho fatto un giro nel negozio dei cinesi. Non ho preso niente, ma prima o poi mi scelgo una camicia a fiorellini. Ce ne sono di carine. Dignitose, ecco.
Quando sono tornata a casa, ho passato il rasoio sotto le ascelle. Perché i peli sono lunghi. E sono diventati duri.
Ora sono qui, nel parcheggio sotterraneo. È quasi l’ora di chiusura. Claudio, l’unico italiano del servizio sicurezza, mi guarda bonaccione, energumeno ex culturista dagli occhi d’oro.
È l’ultima fila di carrelli che devo incastrare. Pesano.
La cosa più difficile è farli andare dove vuoi. Dove decidi tu.
Me lo trovo dietro senza saperlo, senza sentirlo. La mano è veloce. Sotto il grembiule, sotto la gonna. Cerca l’incavo delle cosce.
Mi giro, realtà ovattata. Io fuori dal mio corpo, sospesa in alto. A guardarmi mentre mi lascio toccare. Sempre più in fondo.
È il direttore.
Finisce fuori, poco dopo . Con un ghigno sudato. L’incisivo giallo da fumatore mattutino.
“Sei una puttana, signora”.
Non lo guardo. Guardo giù. La punta delle sue scarpe tristi. Continua: “Ma tranquilla. Anche io sono un signore”.
La banconota che mi ficca in mano è da venti euro.
Se ne va, sotto gli occhi affamati di Claudio.
No. Mi si è smagliata la calza destra sulla coscia. Ancora.
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