Un gatto da salvare.

Quanti ne ha ammazzati, di gatti appena nati. La zia Maria in cascina.

Perché se li lasciava vivi, dopo pochi mesi le rubavano il mangiare da sopra il davanzale. E il mangiare allora era poco, bisognava conservarlo, si doveva lottare per averlo. Per tenerlo. Adesso, invece, se io vedo un gatto magro per la strada, cerco sempre di dargli qualcosa. Povera bestia in mezzo alle intemperie. Assomiglia un pochino a me.

Mi piacciono i gatti. Ti illudono che sia tu a sceglierli. A salvarli.

In realtà sono come quegli uomini che si salvano da soli e non ti appartengono mai.

Guarda questo qui. Piccolino, con la faccia spaventata. Si è infilato in un gabbiotto di legno quasi marcio, qui sul ciglio della via.

Miagolava che stringeva il cuore. Un batuffolo che mi chiamava, che voleva me. Mi sono fermata, mi fermo sempre. Dove sei, micetto. Non ti vedo. Alla fine l’ho visto, il bestiolino. Avevo comprato il prosciutto cotto magro per mia mamma, che se non vado dal Tedeschi non lo mangia, l’aguzzina. Però ho pensato che un pezzettino lo potevo dare a quel musetto spaventato. Si è affacciato dalle sbarre, con gli occhi bagnati del condannato prima dell’ultimo pasto. Ha spalancato la bocca rosa, con i dentini affilati. Ha mangiato, pulce vorace, ben due fette. E io che lo imboccavo e me lo accarezzavo. E lo fotografavo.

E lo avrei portato via con me. Accarezzarlo a notte fonda nel mio letto bianco e freddo. Perché era dolce, tenero.

E lui, invece, impunito senza pari, ha finito di mangiare e mi ha tirato un graffio secco, deciso. Con un balzo è ritornato nel suo antro scuro.

Son rimasta sotto il temporale.

Con la carta del prosciutto nelle mani, mia madre nelle orecchie a dirmi che era tardi, un ombrello mezzo rotto e le dita grasse di carne e peli. Però ho pianto. Lì, forte. Sono riuscita. Un pianto scrosciante, acqua nell’acqua.

Ho pianto su quel gatto che di me non gli importava. Ho pianto sul mio amore. Che di me non gli importava.

Ho pianto su di me, che il coraggio non lo trovo ancora.

Poi ho aperto l’ombrello, solo per metà, con le bacchette che sbucavano fuori dalla tela. Mi sono coperta lo stesso. Ho pulito le mani con un fazzoletto usato, che avevo in borsa.

Ho tirato su col naso, un po’ di volte. E alla fine ho mangiato l’ultima fetta di prosciutto cotto. Hanno ragione loro: il gatto. E mia madre. Questo prosciutto è proprio buono.