Un cielo con le spine.

È la volta buona che non torno indietro.

Vale tutto, adesso. Vale cancellare anche se stessi.

Per tutta la vita ho avuto addosso, ben schiacciata sulla faccia, quella maschera neutra, quella del “va bene”, del “sotto controllo”, del “non ti preoccupare”.

Sono cresciuto così. Senza disturbare.

Ho fatto tutto quello che dovevo fare. Che gli altri si aspettavano, che mi chiedevano di fare. Mi hanno cresciuto in questo modo vile, con il senso compiaciuto che il dovere sia più degno e nobile e giusto del piacere. Da sempre storco il naso contro chi si diverte, chi prende il proprio tempo e lo utilizza senza un fine particolare, solo per sorridere, per stare bene.

Perché mio padre, mani forti dalle dita spesse e il dorso venoso, mi diceva che la vita non deve divertire. Deve andare avanti e basta. A tutti i costi. Allora quando la sera chiudo gli occhi e sento la sua voce calda come il forno che apriva ogni mattina, per tirare fuori il pane, passo in rassegna tutte le mie azioni: le metto su una bilancia precisa, le divido tra utili e inutili. Sono terrorizzato dalla vanità dei gesti, dalle faccende senza scopo, perseguite solo perché amene, piacevoli. Divertenti, appunto.

Lavoro e lavoro. E poi ancora lavoro.

Ho un impiego come archivista, nella contabilità di una piccola azienda familiare. Non vado nemmeno a mangiare, se devo finire di mettere a posto le fatture o i documenti di trasporto. Tutto, intorno a me, deve essere ordinato e catalogato. Questo mi mette serenità. Mi dà la forza di proseguire. È il primo motivo per cui mi alzo la mattina: fare ordine nel mondo, combattere contro un’entropia che non è caso o libertà. È piuttosto minaccia e distruzione.

Allora ripeto sempre le stesse frasi, le medesime parole.

Percorro la strada che conosco, contando sassi e piastrelle. Vado in bagno sempre a quell’ora. Mangio pasta al pomodoro e bistecca di tacchino ai ferri.

Sono solo.

Perché la gente, a differenza dei bimbi molto piccoli, non ama l’abitudine intrisa di incombenze: si annoia.  Molto meglio improvvisare, inventare cose nuove, scappare dai doveri e scovare spazi di manovra al di fuori di regole e procedure. Sono grigio, io, per la gente: ho la faccia di quello che non vedi. Che non fa nessuna differenza. E allora meglio non chiamarlo, non guardarlo nemmeno. Non mi guardano nemmeno le donne di strada, loro, poi, non hanno un grande senso del dovere: dunque passo attraverso. Non mi serve il sesso. Neanche l’amore. Adesso mi serve solo sopravvivere.

È successa una cosa, questa mattina.

Mi hanno telefonato dall’ospedale. Mi ha chiamato lei, l’infermiera che ogni sei mesi mi fa il solito prelievo, sempre nello stesso modo, alla stessa ora, nella stessa stanza. Mi controllo la salute perché devo farlo, mio papà me lo diceva sempre. È un dovere sociale, per te e per gli altri.

Oggi, dicevo, succede una cosa che non è mai successa. Sono malato, mi sa. Il sangue non è più lo stesso. Mi devono spiegare, mi vogliono informare. Bisogna fare ancora esami. E forse terapie. E forse operazioni. Comincerà una strada lunga, un percorso che mi porterà alla fine, forse. Questo non ci voleva: questo scompagina il mio ordine. Mi costringe a improvvisare. Ad adattarmi a un fatto inatteso. E non è il combattimento, che mi fa paura. Quello lo devo fare, tutti se lo aspettano. È l’altra cosa che mi viene adesso, nella pancia, a crearmi più spavento: la voglia di divertirmi, di recuperare quel tempo che non ho vissuto, di rivivere la vita. Quella vera, che non si può intuire. O immaginare. Ora che un imprevisto si è abbattuto nel mio ordine mentale, sento che la cosa più destabilizzante è la spinta verso qualcosa che non ho mai avuto, ma che adesso desidero con tutte le mie forze: la gioia dell’istante. Una risata repentina. Una deviazione dalla responsabilità. Un cambio di ruolo.

Così parto.

Mi metto in cammino senza contare sassi, piastrelle o passi. Prendo il primo volto, vado in Arizona. Per la prima volta, la gente mi vede: osserva la mia pelle gialla, sotto la maschera neutra. Vede anche i miei occhi lacrimosi. Vede i miei piedi che inciampano un po’, su queste vie mai battute, sconosciute. Eppure bellissime.

D’un tratto, quasi al tramonto, in questo deserto che continua fin dove lo sguardo può arrivare, dove non ci sono zone d’ombra ma solo distese di sole infinito, rossastro, vedo un cactus enorme. Non lo avevo visto mai, un cactus così. Sembra un uomo: ha un tronco solido. E due braccia che si levano verso il cielo terso e altissimo. Non c’è nessuno in giro. Soltanto un cane randagio, scappato da un casotto di lamiera rovente. Si solleva un po’ di sabbia rossa, portata dal vento lieve. Mi tolgo i vestiti, fa caldo e sudo da impazzire.

Sono solo e nudo nel deserto, all’altro capo del mondo.

E faccio la cosa più inaspettata che possa fare, perché non è un dovere, ma solo un desiderio. Una pulsione improvvisa, che non voglio soffocare: perché mi piace così. Abbraccio quest’uomo verde e pungente. Lascio che le spine mi entrino nella pelle. Sanguino nella terra. Gocce rosse che segnano una vita nuova, l’ultimo miglio, per me. Prima della fine.

Adesso sento. Sento tutto. Grazie, sussurro al vento.