Entriamo con le facce un po’ arrossate dal sole e dal vento, son giorni di camminate. E di fotografie. E di scalini. E di mani nelle mani.
San Gimignano è bella, è Italia che fa impazzire gli stranieri.
Tolgo gli occhiali da sole, rivolgo gesti affrettati al ragazzo che serve ai tavoli. Intendo “Libero? Ci sediamo?”
È buono. Educato. Si scusa per l’attesa. Ci offre il tavolo migliore. Un pizzicagnolo-cantina, con cinque tavolini dentro. Odore di legno, di Vernaccia, di panforte. Odore di lardo bianco e innocente. Osservo il cameriere, poi la donna al banco, poi l’uomo che, dietro a una vetrina colma di salumi, taglia il pane toscano.
La geografia dei volti è inconfondibile: una famiglia.
Un’orchestra perfetta, ognuno con il proprio ruolo, le proprie battute, il proprio modo di stare dentro a questo sogno e a queste sedie, che son state un azzardo, una scommessa. E che adesso “ci devono dare da mangiare”. La madre, tinta rosso acceso e farfalla tatuata sul polso, ha le dita sporche di cantucci, cioccolato e uvetta. Il ragazzo, pelle bianca e ombra di barba, si esprime con voce delicata, in spagnolo e in inglese. Conquista una coppia di russi spocchiosi, sgraziati. Il padre, cintura marrone con le borchie, ventre tondo e baffo western, non apre bocca.
Ordiniamo. La famiglia si attiva. Suona la sua sinfonia.
Passi certi. Provati tante volte, anche a porte chiuse. “Non possiamo sbagliare”.
Noi entriamo negli schermi violenti dei nostri cellulari. Abbiamo tanta vita che ci aspetta, fuori da San Gimignano. Le nostre corse vogliono ricominciare. E premono da quei messaggi invadenti, fuori luogo.
Il ragazzo ci porta le bruschette: un capolavoro. Il nostro bicchiere di vino. Io premo veloce sul display, ci sono, mi scuso, devo rispondere, ringrazio assorta. Dico “Che meraviglia!”, ma la testa è altrove. All’altra vita, quella che rotola in discesa. Senza sosta e senza freno.
Pochi secondi e arriva. Esce dal suo antro. È basso, tarchiato.
Il padre.
Si posiziona di fianco al nostro tavolo. Gli esce una voce calda, ma scura. Una voce che gratta come l’olio toscano più buono. Non vede noi. Ha lo sguardo fisso nei i nostri cellulari. Pare li voglia toccare. Afferrare. Gettare?
“Adesso basta: qui state. Qui dovete stare. Guardatevi occhi dentro gli occhi. E buon appetito”.
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