Un bicchiere.

Trema ancora, la mano. Forse non se l’aspettava.

Il bicchiere è caduto e non si è rotto, ma ha rovesciato tutta l’acqua, creando un lago in miniatura vicino alla lavastoviglie. Quella è una plastica dura, il materiale indistruttibile degli oggetti per bambini: la melammina che resiste all’impeto dei denti ingordi, alla forza mal dosata delle dita instancabili. Curiose del mondo. Lei ha provato a fermarlo, ma la traiettoria era già delineata: una striscia d’aria, un gioco di gravità, che ha portato il bicchiere a concludere il suo viaggio sul pavimento di cotto pregiato, marrone chiaro.

Lui ha voltato la testa. Non è una novità, ha pensato lei. Stavano discutendo come discutono sempre: trovano il modo di scontrarsi sulle evidenze. Prove inconfutabili di un relativissimo che sfianca: il principio è lo stesso. Avere ragione. Sempre. A tutti i costi.

Sono arrivati a questo punto e non sanno perché. Ci sono dentro: nuotano in questo mare di parole, che, il più delle volte, non servono a capire. Riempiono parentesi e interstizi tra gli oggetti, i ricordi, i pensieri: sono pietre che rotolano da una parete di roccia che non tiene.

Quando hanno iniziato?

Lei lo sa. Lui no, lui non sa niente, come tutti gli uomini. Stava seduta sul divano, Tommaso in braccio che succhiava al seno. Il camino era acceso. Lui le ha detto: “Ho ricominciato in palestra”, con la borsa in mano e le gambe nella tuta. Lei no. Da sola non poteva ricominciare da nessuna parte, perché aveva una propaggine bellissima appena fuori di sé, un essere meraviglioso e insieme potente e distruttivo, che nutriva. E che doveva amare. Quindi stava sempre dentro la stanza del bambino, in piedi. Si perdeva in mezzo ai pannolini, alle ninne nanne, alle coliche. Viveva di sorrisi infiniti. Occhi pesanti che fissavano il buio, appena prima di abbandonarsi al sonno, il riposo delle guance sode e piene.

Il marito era una comparsa importante di questo romanzo d’amore, salato e brioso come una pagina sotto l’ombrellone. Arrivava. E usciva. Poi, qualche volta alla settimana, c’era lo spettacolo della famiglia appagata: pranzo con i genitori, aperitivo con gli amici.

Si. Siamo felici. Non si vede?

Tommaso diventava grande, come diventano grandi tutti i bambini: con il tempo. Lei voleva solo essere perfetta. Lui, mentre si metteva nelle orecchie gli auricolari del telefono, la desiderava sbagliata. Come quando l’aveva conosciuta. Insieme volevano Tommaso. Da soli si permettevano la libertà di non volerlo.

Il tempo ha fatto passare tre anni. Sono arrivati l’asilo, la baby-sitter, la pipì da solo. Il corso in piscina, la bicicletta con le rotelle, il cartone animato in inglese. Il vortice delle tappe di tutti. Le parole tra marito e moglie sono andate via, poi sono ritornate, più taglienti, più livide. Mentre Tommaso gioca nella sua stanza. Lei ha iniziato a erodere un muro instabile: a lagnarsi, come dice lui. A fare la vittima. Lui ha preso a lasciarla parlare. A chiudere appena, dietro di sé, la porta dell’antibagno e a inchiodarsi sopra il water.

Per averla come sottofondo, note distratte, senza importanza.

In questo istante sono in cucina da qualche minuto, il bambino inventa storie di supereroi, lo sentono in camera sua che fa la lotta con i pugni contro l’aria. Si sono incrociati qui. Il marito non ha mangiato a casa. Era in sala attrezzi fino a poco tempo fa. Con l’altra, la cubista, quella che ha i glutei lisci e freschi. La moglie lo sa, forse da sempre.

Il bicchiere è caduto perché alla moglie è tremata la mano, in un gesto vano di rassegnazione. Mentre diceva a lui queste parole: “Vai. Esci di qui. Ancora!”. Perché vuole solo andare a dormire, lei. Prendersi addosso Tommaso e non parlare. Magari stare lì, con la testa piatta nel cuscino, gli occhi spalancati a fissare le travi tarmate del soffitto. A chiedersi come. Come fa il tempo a sgretolare il legno e la vita, così.

Però questo non succede. Perché Tommaso da qualche giorno capisce quando mamma è arrabbiata con papà. Allora arriva di corsa. Vuole cambiare le cose. Ha ancora la certezza di poterlo fare. Perché tutto è semplice per lui, come mangiare.

Tutto è magia, basta volerlo.

Come accendere la luce se nell’oscurità si sentono sospiri cattivi, sospetti. Come stringersi alla mamma. O saltare in braccio al papà. In fondo vuole solo che si guardino in faccia, una sola volta. E si facciano un sorriso. Lui non se lo ricorda, ma il sorriso che cerca era quello dentro il sangue della sala parto. Un sorriso bagnato di lacrime. Quella felicità che sembrava eterna, perché usciva da un dolore che, dicono, si scorda.

Tommaso sente il bicchiere contro il pavimento, fa un rumore sordo che è un richiamo. Entra veloce, mentre mamma e papà si allontanano con passi vuoti, aumentano le distanze, ancora.

E in un attimo accade. Il volo è immediato.

Il bambino scivola sull’acqua, le ciabattine si librano verso il piano della cucina. Il sedere picchia contro le piastrelle, tonfo sordo, e il volto è pallido, fermo. In questo istante sua madre lo vede sedicenne. Una frazione di secondo in cui i tratti del suo viso sono quelli di un ragazzino che scivola su una pozzanghera mentre frena in motorino.

Vanno verso di lui, mamma e papà.

Tommaso è immobile. Ha tre anni e un livido grande, tra pochi minuti comincerà a vedersi. Si sente già la natica pulsare. Però loro due tornano indietro. Convergono con piedi sicuri verso la macchia d’acqua, al centro di tutto. Per questo Tommaso non piange. Perché forse non tutto è perduto. Perché forse, per tutti i bicchieri che cadranno, per tutti i lividi che gli verranno, ci saranno passi che torneranno indietro, ancora. E alla fine lo raggiungeranno.