Un amore di carrozza.

Bianco e Trotto. Si chiamano così, questi cavalli grossi che mi portano in giro per tutta la città. Mansueti, servizievoli, ché a strigliarli impiegheresti ore e ore, perché è un modo tutto umano di toccarli, di dire loro grazie.

Zoccoli che schiacciano sempre lo stesso pavimento, un pavé a tratti dissestato, e quando guardo giù dalla carrozza, dico che il pavé è come la vita, liscio e insieme rovinato.

Insomma dipende tutto da come metti il piede.

Non è molto che faccio il cocchiere turistico, qui a Firenze. Sto in Piazza della Signoria, dal lato degli Uffizi. Conosco tutti i ritrattisti e gli artisti di strada. E l’altro giorno ho fatto parlare perfino il mimo muto, tutto nero, con in bocca un tulipano. E non doveva parlare, lui è il mimo muto.

Però la gente si diverte, quando viene qui e quando parla con me. Stanno in fila per il Duomo, migliaia di facce di tutti i colori. I giapponesi, in faccia, li vedi dopo. Prima vedi le macchine fotografiche compatte, rosa fosforescenti, sempre davanti agli occhi. Gli americani, poi. Italy my Love mi dicono, Italy Wonderful. Noi Italiani invece la nostra Italy la critichiamo sempre. Sempre a dire che gli altri sono più bravi, sempre per colpa di qualcuno che non siamo noi.

La primavera è sbocciata anche qui, lo vedo dai polpacci nudi delle turiste del Nord. Lo vedo dai bimbi che starnutiscono per le allergie.

Lo vedo dalla mia faccia del mattino, che non ha più voglia di guardarsi sempre sola.

E in questo clima di caldo frizzantino, con l’aria fresca che si insinua tra le natiche sode delle statue nude, mi sono innamorato anch’io. È successo questa mattina, avevo finito il giro con una famigliola inglese, li ho lasciati davanti a Santa Maria Novella; niente mancia, anche se ho fatto salire il ragazzino più grande qui davanti, vicino a me, a tenere la briglia di Trotto.

Lei usciva dalla chiesa.

Zaino in spalla, occhiali da sole. Pelle già abbronzata. Macchina fotografica al collo. “Takin’ a picture, you’re fantastic!”

Due occhi pungenti come chicchi di caffè tostissimo, nero nero.

Non lo dovevo fare, lo so. Eppure la vita non è fatta di cose che non si devono fare, è fatta di cose che si fanno o non si fanno; e io di solito faccio. Vieni su, vieni su. Le faccio gesti con la mano.

Lei sale, io la porto in giro.

E per me son soldi persi, perché tanto non glieli chiederò, lei l’ha capito. La accompagno dove vado a rilassarmi solo, dove non porto mai i turisti. Scendiamo lungo l’Arno, negli angoletti che conosco solo io. Scatta. Almeno un milione di click. Poi mi chiede di fermarmi, ha visto qualcuno, qualcosa. Scende, poi sale di nuovo, davanti. Mi viene vicino e io tremo. Gira la macchina fotografica e ci immortala in una foto, un autoscatto vecchio stile, mentre mi bacia con una passione che da tanto non provavo.

Aspetta, andiamo.

Scendiamo da questa carrozza, andiamo via, andiamo a far l’amore.

Non faccio in tempo, però. Lei scappa, scende, corre via. E io rimango fermo, incastrato nel pavé.

Senza neanche una scarpetta in mano.

E adesso sbuffano come se ridessero, Bianco e Trotto: brutti, malefici ronzini.