“Corti, corti. Fammeli corti”. Più corti che puoi, per far vedere bene il viso. Ora che mi piace il mio naso un po’ aquilino. E la mia mascella forte. Mi ricordano mia madre e mia nonna. Del resto abbiamo sempre avuto lo stampino, in famiglia.
E poi è il primo giugno e arriva l’estate.
C’è un’aria calda fuori, anche se sono le sette di sera e il cielo borbotta da imminente temporale. Eppure quella luce viola dei tramonti lunghi e commoventi inizia a fare capolino. E mi riscalda il cuore.
Oggi pomeriggio ho preso un paio di sandali bellissimi, tacco 12, una ridda di perline che abbaglia. Spillo senza plateau. Scarpe sexy che indosso da adesso tutti i giorni. Tanto la sera faccio stretching alle cosce. Ai polpacci. E vado dove voglio, anche nei binari del tram o nelle piazze colme di sampietrini ruggine, dissestati. Stai attenta, mi ripete Mauro, che mi guarda come una madonna sensuale ed effimera, neanche fossi di vetro: una ciotola di Murano su un precipizio scozzese, in bilico tra un’esistenza zavorrata a terra e una vita che si libra in volo. Sul mare impetuoso.
Mi ama da anni. Io non l’ho mai amato.
Lui, dico. Ho amato l’amore che mi ha dato, che mi dà. Ma lui no. Lui mai. Neanche adesso, che sarebbe semplice. Come sopravvivere, come respirare.
Non ho ancora chiamato mio padre. Vado avanti a messaggini su Whatsapp. Note vocali no. La mia voce la legge troppo bene.
Il Salento con la Dony l’ho prenotato ieri sera, una settimana a Santa Maria di Leuca, a guardare il mare limpido del tacco, a ballare la pizzica che sfianca di passione, svuotando mente e cuore. Partiamo il due di luglio, chissà se ce la faccio, se il treno è puntuale, se ritrovo il pescatore dalle mani grandi. E una notte rifacciamo quell’amore sudato tra i remi salmastri e i granelli di sabbia che graffiano, dietro le cabine.
Dipende da lui. Dal linfoma.
Mi sono svegliata un giorno, a trentadue anni, e la mia vita non è dipesa più da me. Ma forse questo vale sempre. Vale per tutti. Solo che nessuno lo sa, finché un dottore non ti mette una data di scadenza. In uno studio freddo, bianco. Con i portafoto ingialliti dei figli nella migliore età. Mille anni fa.
Le cure fanno più male del male. E guastano gli ultimi mesi.
Per esempio non sento quasi più i profumi.
O mi fermo e mi accascio dopo pochi metri. Quella cosa lì mi opprime il petto. Mi ancora le gambe.
Per esempio non piango, io che piangevo per un gatto abbandonato. Per un film che finisce con un bacio.
Sto con i pugni duri, chiusi.
Cammino piano, così. Ondeggiante sui miei tacchi, con le mani pesanti e la testa in cielo.
A far programmi di vita futura. Belli i miei capelli, così. Rossetto. Ecco, quello ci vuole.
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2 Commenti
AnonymousFromSomewhere
12 Luglio 2016 at 18:32
Francesca Crippa
12 Luglio 2016 at 21:48
Struggente ma splendida, brava.
Grazie! Mi fa tanto piacere!