Salgo le scale della metropolitana, tengo il tacco fuori dal gradino, perché la schiena mi fa male e mi sbilancio all’indietro, tutte le volte che metto queste scarpe. Dopo la grande caduta, le vertebre, quelle vicino all’osso sacro, non sono state più le stesse: schiacciate, doloranti. Dovrei abituarmi a portare un tacco di cinque centimetri, largo e stabile. Invece metto sempre quello a spillo, argentato. Montato su un open-toe che mi taglia l’alluce.
Così diventa una tortura, camminare.
Ma è un dolore che mi piace, che in qualche modo mi aiuta: mi ricorda che c’è uno scotto da pagare, se vuoi far girare la gente per strada. E vuoi tenere un uomo così, che ti aspetta a casa quando la moglie porta il bambino dal dentista. O al parco giochi.
Allora mi guardo allo specchio e mi chiedo cosa devo fare, per convincerlo a non rendermi seconda scelta: serie B che invecchia in panchina. Che fai entrare in partita soltanto quando la titolare deve abbandonare il campo.
Mi vuole più bella? Allora mi trucco, in modo violento e forsennato.
Mi cambio i connotati con il fondotinta, che cancelli ogni ruga, ogni segno della pelle. Mi vuole più snella? Mi stringo dentro un paio di skinny che mi ammazzano il respiro. O forse più formosa? E allora bastano un reggiseno imbottito e una maglia bianca, elasticizzata. Credo mi voglia meno pressante, quello di sicuro. L’altra sera mi ha scritto che è stanco. Che con la moglie, in fondo, va un po’ meglio. Che mi vuole troppo bene. Scriverò questo sulla mia rubrica? In redazione vogliono sapere. Vogliono che parli alle lettrici, “perché sai quante sono come te, ad aspettare un uomo che le illude in un appartamento vuoto”.
Il caso umano più retorico e banale. Già sentito, tutto già provato.
Ma io no, quella fine lì non la voglio fare. Penso a tutto questo mentre affronto queste scale. E poi percorro la stessa via, questa sera un po’ affollata, tutti i passi usciti dagli uffici, via a correre dentro le case. A fare i bravi, orde di mamme ottime cuoche, di papà supereroi, di figli che non hanno ancora finito il compito di geografia. Quando arrivo al condominio, un palazzo signorile di klinker marrone, so che non devo citofonare. Mi guardo intorno e scrivo su whatsapp: sono arrivata. Lui mi apre solo se posso entrare. È così anche stavolta: il via libera mi arriva con un sì tutto maiuscolo. E l’emoticon del cuore grande, quello che batte. Salgo ancora.
Che dolore questi tacchi, tra poco me li toglierò.
O forse no. Tutto il resto sì. Ma quelli no.
Sono quasi al terzo piano, che scema: potevo prendere l’ascensore. No. Occupato. Continuo il mio incedere indefesso e ostile, con le vertebre che pungono in basso. L’ascensore arriva, si ferma al pianerottolo dove sono arrivata anche io, zoppicante. Le porte si aprono con un cigolio fastidioso. E poi una voce stridula, accesa: “Vai, suona il campanello! Papà ti apre subito”. Una donna sfiorita, ma con un sorriso sereno e contagioso, invita un bambino di circa sei o sette anni a suonare alla stessa porta dove io sono diretta. Mi fermo di botto, mentre il piccolo armeggia con la maniglia scivolosa.
La donna guarda la mia faccia, devo essere bianca come un lenzuolo stropicciato. E poi fa cadere gli occhi sulle mie scarpe. Nessuno apre. Lui deve aver capito. Sa che sul pianerottolo ci sono suo figlio, sua moglie, la sua amante. E allora sta lì, cera gelata dietro la soglia. A pensare che in un attimo, forse, la sua vita andrà in pezzi. La sua reputazione. Tutto.
Io non me ne vado.
Voglio guardarlo in faccia mentre il suo castello si infrange contro il caso. O il destino. Qualche minuto e la donna mi rivolge la parola, un brivido mi percorre la pancia indolenzita. “Adoro le sue scarpe. Non ha figli, vero? Non potrei metterli, io, due tacchi così. E chi lo insegue più?” Lo dice mentre accarezza da lontano quel bambino con le scarpe intermittenti come luci di Natale, saltellante sopra lo zerbino. Le scorgo nelle pupille un misto di invidia, di rassegnazione, di paura. Vedo che scambierebbe la sua vita con la mia, qui. Adesso. Vedo che sa. Ma fa finta di non sapere. Lo fa per suo figlio. O forse no, perché fa già tutto per suo figlio. Questa cosa la fa per lei e basta. Lo capisco da come mi fruga, i suoi occhi sono mani che scardinano anche le mie illusioni. D’un tratto mi sento sporca. Pericolosa come un’assassina. Che diritto ho, io, di turbare questo equilibrio transitorio? Devo fare soltanto una cosa, adesso.
Girare i miei tacchi. Appena in tempo.
Lui apre la porta, intravede la mia schiena ossuta di antilope che scende dalle scale. Intravede me. Che torno di nuovo a sedermi là, sul legno marcio della mia panchina.
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