Un viaggio a Favignana: storie di tonnara e tonnaroti.
Dello zio Peppe mi colpiscono le mani. Sono aperte, mai ferme. Hanno le nocche grosse che fanno pensare ai nodi nel fusto di un ulivo secolare. “Ascoltate bene, se tra voi ci sono imprenditori: bisogna rispettare i lavoratori. Perché qui i padroni ci garantivano rispetto. E noi eravamo felici”.
‘Qui’ è lo stabilimento Florio di Favignana, la prima e più grande industria conserviera del Mediterraneo per la lavorazione e l’inscatolamento del tonno. La fabbrica fu realizzata nella seconda metà dell’Ottocento per volontà del Senatore Ignazio Florio, esponente di una famiglia di industriali e mecenati che avrebbe segnato la storia della Sicilia e dell’Italia.
Zio Peppe e lo stabilimento Florio
Lo zio Peppe, all’anagrafe Giuseppe Giangrasso, è oggi il custode del museo aziendale denominato ex-Stabilimento Florio, dopo aver lavorato in azienda per 50 anni, a partire dal 1962. Potete incontrarlo all’ingresso, seduto su una sedia di plastica bianca; se siete fortunati, prenderà la parola durante la visita guidata al museo.
La sua voce roca e tonante ci racconta di una realtà che nel secolo scorso dava da mangiare e da vivere a 800 operai. “Più della Fiat di Torino”, sottolinea lo zio con lo sguardo vivido di orgoglio. “Lavoravamo in estate e in inverno. Sempre. Ognuno per la propria parte, ma tutti insieme”. Il suo parlato mischia dialetto e lingua italiana; il risultato è un ibrido piacevole, colorito. “La moglie del padrone aveva creato l’asilo nido. Perché le donne allora venivano considerate, forse più di oggi. Parliamo del 1947”.
È forte l’emozione quando lo zio Peppe, con gli occhi umidi, intona il canto dei tonnaroti, detto “cialoma”, un inno che veniva innalzato in coro da tutti i pescatori. Si eseguiva all’unisono, per mantenere il ritmo dell’azione durante la mattanza. E per propiziare la buona sorte, invocando i Santi. “Aja Mola, Aja Mola”: così recita la strofa iniziale del canto, un’espressione di derivazione araba che significa “O mio Signore”.
Vedere questo museo, 32.000 metri quadrati di superficie complessiva, significa toccare con mano la cultura della pesca e della lavorazione del pesce. Vuol dire ascoltare le voci di un passato sempre vivo: intreccio di esistenze autentiche e sincere, grate a Dio, agli uomini e a Madre Natura. Dentro questo monumento storico è custodita una parte dell’anima di Favignana.
La tonnara di Favignana
La pesca del tonno rosso durava 40 giorni, dai primi di maggio a metà giugno, quando i pesci lasciavano le acque gelide dell’oceano per addentrarsi nel Mediterraneo, allo scopo di deporre le uova in perfette condizioni di salinità e temperatura mite. In tutti gli altri mesi si svolgevano lavori di manutenzione nei magazzini della trizzana e del malfaraggio per il ricovero delle barche. Da marzo si lavorava per preparare la tonnara: veniva costruita pezzo per pezzo dagli stessi tonnaroti. Otto km e mezzo di rete, galleggianti, lastre di sughero, cavi d’acciaio per formare l’ossatura, rusazzi, ovvero appositi pesi, per tenerla ancora al fondo. La rete veniva calata dalle barche, a quaranta metri di profondità, nel tratto di mare compreso tra Favignana e Levanzo.
È una tradizione antica, di origine araba, un metodo eco-compatibile che rispetta il ciclo riproduttivo dell’animale. La tonnara fissa è costruita con un sistema di reti che lasciano uscire i tonni più piccoli e intrappolano soltanto gli esemplari adulti, dopo la deposizione di uova e seme. Invece le tonnare volanti intercettano e catturano il pescato prima della riproduzione, senza fare alcuna distinzione, incluse le specie protette come le balene. Questa metodologia è sempre stata praticata da giapponesi e nordeuropei, ma ormai è diffusa in tutto il mondo ed è protetta dalle normative che regolano la pesca in acque internazionali.
Per questo a Favignana i tonni non arrivano più. O meglio, sono diminuiti in maniera drastica nel corso degli anni. La nuova pesca d’oceano, eseguita con sonar, scandagli ed elicotteri, così come l’inquinamento acustico delle barche a motore, hanno contribuito a modificare l’ecosistema ittico dell’isola.“Nel 1859 si pescarono 10.150 tonni. Questa era la regina di tutte le tonnare del Mediterraneo” interviene lo zio. “Ma poi il pesce ha smesso di arrivare. Veniva preso prima, nell’oceano. Nel 2007 abbiamo pescato 100 tonni in 40 giorni”.
Quello fu l’anno nero, l’anno dell’ultima tonnara. Nel frattempo anche lo stabilimento era stato chiuso: era ormai sovradimensionato per un pescato così ridotto. Negli ultimi anni era stata introdotta la lavorazione del congelato, ma in seguito l’opzione più adeguata si rivelò la cessazione dell’attività.
Gioacchino Cataldo, il rais di Favignana
“Il tonno è il maiale del mare”. Parla con tutto il corpo proteso in avanti, l’ultimo rais di Favignana. Il suo nome è Gioacchino Cataldo e oggi possiamo vederlo soltanto in una video installazione del museo, perché è morto l’anno scorso, lui che pareva invincibile e ha guidato i tonnaroti per 11 anni, dal 1997 al 2007. Due metri d’uomo, detto “il gigante del mare”, capace di tirare da solo un tonno da quasi 400 kg.
Usa il linguaggio dei pescatori, quando spiega i tagli del tonno: “il tarantello, la ventresca, la curidda bianca vicino alla coda, il cuore e il polmone, il lattume, le uova della bottarga”. E tutti i prodotti derivati: dalla bresaola di tonno alla ficazza. “La sera salutavamo la tonnara. Le dicevamo: Sante Buona Sorte. Era la madre di tutti, la tonnara”. A proteggerla c’era una croce dedicata a San Salvatore.
L’ultimo rais mostra il codice di gesti che gli permettevano di dare tutte le indicazioni ai tonnaroti durante la mattanza: dalla sua barca, la musciara, il rais era il grande regista della fase conclusiva della pesca, quando i tonni, giunti nell’ultima camera, denominata coppo, venivano arpionati e sollevati da squadre di sei pescatori. Un lavoro duro. Rischioso. Ma che ancora fa brillare gli occhi a chi lo faceva.
Clemente, tonnaroto da sempre
“La pesca era la mia vita”. Lo incontro al porto, con la pelle abbronzata e segnata dalla salsedine, la folta chioma albina, il fisico possente. Il suo nome è Clemente Ventrone, il vice-rais di Favignana, braccio destro di Gioacchino Cataldo e icona dell’isola. Clemente. Tonnaroto da sempre. “Sono nato a Caserta, ma mio padre è di Favignana; da piccolo nun ne volevo tanto di andare a scuola, perchè mi piaceva troppo il mare. Nascondevo la cartella e giravo per le marine, una volta o due mi è andata franca, poi se ne sono accorti e legnate ne ho avute per me e gli amici miei.”
A 14 anni il libretto di lavoro. E l’entrata in fabbrica. “Lavoravo con le donne che mettevano il tonno nelle scatole. Ma quando iniziava la mattanza, andavo sempre a vedere i tonnaroti. Il caporale, dopo 5 o 6 anni, mi ha passato con gli uomini”. Sul viso di Clemente s’insinua un lampo di commozione: “C’era un anziano che mi imparava. È sempre così: sono gli anziani che ti imparano. Io ho cominciato a tagliare le teste dei pesci. Al rais davo i tagli più pregiati, così un bel giorno mi ha portato con lui in mattanza. E sono diventato vice-rais”.
Il Leone Bianco mi racconta di come si preparava la tonnara. Ricorda che prima di tutto la tonnara veniva calata a terra. “I raisi sanno calcolare la profondità, perché scandagliano il fondale con la barca”. Sorride, il vice-rais, quando gli dico: “Non è un lavoro delicato, vero?” Mi osserva con quegli occhi che sembrano aver visto tutto. Perché ogni santo giorno hanno visto il mare. “Delicato? Ci stavano ancore da 400 kg, fino a una tonnellata. E cavi d’acciaio da 80 metri, che pesavano 100 kg. Ci vuole pratichezza. Tanta pratichezza!”
Risveglio al porto
Il mattino dopo mi alzo presto. Vado al porto. Voglio sentire quello che il rais chiamava il profumo-puzzo del tonno. Voglio guardare le mani dei pescatori mentre sistemano le reti. Ascoltare le voci degli uomini del mare che gridano dai banchi per vendere i tagli migliori. Cernie, occhiate, palombi: pesce buono, regalo delle onde e della perseveranza. I pescatori si lasciano fotografare. Qualcuno mi fa cenno di avanzare, lasciar perdere la macchina fotografica e osservare il pescato, perché da vicino è ancora più bello. Queste sono le immagini del mio viaggio a cui mi sento più legata: un racconto che condivido con voi.
Un luogo prezioso
Oggi la vocazione di Favignana è per lo più turistica: il contesto naturale è di una bellezza che resta nel cuore. Le persone sono così accoglienti. Ospitali. Aprono le porte del loro cuore, fieri di quello che hanno. Allo stesso tempo rammentano con nostalgia i tempi in cui sull’isola non arrivava nessuno. I tempi in cui, per citare Clemente, “si pescava per mangiare”. Si viveva in modo semplice e genuino. Per questo mi auguro che il turismo sia sempre rispettoso e sostenibile; che non diventi mai massa invadente. E sia capace di integrarsi alla cultura di questo luogo prezioso, un tesoro da custodire.
Volete conoscere tutte le meraviglie di Favignana? In questo articolo vi suggerisco 5 idee per un viaggio da ricordare!
Eh brava Francesca! Il tuo racconto dettagliato mi ha trasmesso l’anima di Favignana e dello zio Peppe! Anch’io facente parte del popolo del mare amo leggere notizie che ne riguardano! Grazie e complimenti! Continua così! Magari se ti interessa ho altre storie da farti raccontare su personaggi del mare nostrum
Grazie Antonio, mi fa molto piacere! Favignana è rimasta nel mio cuore, insieme a tutte le sue storie. Certo che mi devi raccontare di altri personaggi del mare nostrum! Un abbraccio.
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2 Commenti
Antonio Veneroso
25 Febbraio 2020 at 7:49
Francesca Crippa
4 Marzo 2020 at 12:05
Eh brava Francesca! Il tuo racconto dettagliato mi ha trasmesso l’anima di Favignana e dello zio Peppe! Anch’io facente parte del popolo del mare amo leggere notizie che ne riguardano! Grazie e complimenti! Continua così! Magari se ti interessa ho altre storie da farti raccontare su personaggi del mare nostrum
Grazie Antonio, mi fa molto piacere! Favignana è rimasta nel mio cuore, insieme a tutte le sue storie. Certo che mi devi raccontare di altri personaggi del mare nostrum! Un abbraccio.