Si raccoglie solo vestiario.

È passato un anno.

Oggi chi mi incrocia per la strada avverte prima di tutto un odore forte di acqua di colonia: non mi piace più lavarmi, da quando mi hanno tagliato il riscaldamento, e dunque l’acqua gelata mi paralizza, cadavere anzitempo in una cella frigorifera ovattata e scivolosa.

Mi cospargo, allora, del profumo di mia madre: così vado in giro che sembro un fazzoletto inamidato, utilissimo per pianti improvvisi e composti, quelli che sfiorano appena i volti dei borghesi ben educati.

Pare ieri che venivo qui, carica di sacchi viola e buoni sentimenti: mi disfavo del superfluo, che era necessario per chi stava molto peggio di me. Alla Missione di S.Maria Annunziata ho portato oggetti, vestiti, lattine di tonno e scatole di lenticchie: io, la moglie del notaio, che brava, generosa. È un’artista anche, mormorava la gente quando mi vedeva. Mi piace dipingere, sì. E quando tutto era al suo posto, i soci benestanti della Canottieri compravano a tre zeri i miei quadri di lago e di montagne. Qualche vernissage, calici di Veuve Clicquot, cornici shabby chic per seconde e terze case.

La noia, la noia. Compagna dei ricchi.

In quella vita monotona, ai piedi di un palcoscenico diroccato, lui è arrivato come un mantice a soffiare ossigeno sul fuoco: povero, violento, opportunista. Io? Innamorata. E ingenua. E fragile. Il peggior romanzo d’amore: Harmony da ombrellone. Di lui sulla mia pelle lisa mi rimane il nero delle unghie, il morso di un dente d’oro, un graffio. Apici di una passione da melodramma di serie zeta: tappeti, finestre, balconi. Giarrettiere.

Scoperti presto dall’assistente e tuttofare di mio marito, vecchio corvo che attendeva solo quello per togliermi dalla circolazione. Tre giorni e avevo un’altra identità, il vuoto tutto intorno: d’un tratto ero diventata la ricca sgualdrina. Povero notaio. Il mio amante è fuggito di lì a poco. Camminavo per la strada e mi pesava questo marchio: un monatto dalle mani lorde. Un essere immondo che doveva rientrare nel gorgo scuro della terra. Avevo una casa, era di mia madre. Rimasi lì. Con le mie tele e pochi soldi che riuscii a racimolare. Il mangiare diventò poco, il denaro anche: io non sono capace di lavorare. Di sopravvivere. Non vivevo, nella mia vita di prima: galleggiavo come plancton portato dalla corrente.

Niente dubbi, niente domande. Fluttuare e basta.

Adesso sono ferma davanti al portone dell’Annunziata, al cartello che dice che raccolgono solo vestiario. È la terza mattina che vengo qui: ieri ho portato via un paio di calze dure, pesanti. Ispide da pungere come barba nuova, tanto le mie gambe molli stanno imparando che funziona così, che la vita, quella vera, punge e morde e scalcia.

E quello che conta è salvarsi da un inverno subdolo che ammalia.

Vorrei non entrare, adesso. Tenermi quello che ho, che si sta sgretolando, sferzato dal vento che erode i declivi brulli. Vorrei morire nuda, senza vestiti. Un gatto egiziano elegante e tutto pelle, senza filtri a proteggerlo dal mondo. Invece entro, perché mi serve un maglione, mi serve un cappotto. Qualcosa che qualcuno ha buttato. E per me potrebbe essere zattera, salvezza. Mi fanno aspettare: mi dicono “accomodati”, come alla mensa dei poveri.

Quando sei un pezzente, tutti ti danno del tu.

Mi guardo intorno, vedo gli stendini pieni di vestiti, scatoloni che qualcuno sta svuotando e sistemando. Dal fondo, mi intravede un volto che conosco, mi fa un cenno con gli occhi. Mi muovo, guardinga, in quella direzione. La suora è sempre magra, come tanto tempo fa: un mucchietto di ossa travestito da pinguino, viso dolce, nonostante il naso adunco e la mascella forte. Mi osserva, a fondo. Come non capita da tanti mesi, con nessuno: da povera sono diventata anche trasparente, i capelli sono sporchi, hanno cambiato colore. La faccia è segnata, il passo claudicante.

Sono diversa. Uno spettro. Un’ombra.

Ma la suorina delicata sta cercando giù giù nei miei occhi, che invasione, che dolore provo nel mio abisso. Si volta, prende un pacchetto sopra il banco alle sue spalle. “Tenga” mi dice. Mi dà del lei. Si allontana e io sparisco, vado via, non apro il pacchetto che pesa poco, è leggero: me lo tengo in grembo come un bambino stanco e lieto, una cassetta di verdure del più bravo contadino, un cucciolo peloso che mi lecca il viso. Prima della stazione della metropolitana, però, mi fermo, lì dove sono. Apro con impeto, strappo la carta velina, frugo, esploro: mi scendono le lacrime calde sul viso. Sono belle. Sono buone.

Nel pacchetto c’è la mia pelliccia, un visone bianco coi riflessi grigi, da qualche migliaio di euro. Consumato, certo. Ma adesso bellissimo, meraviglioso. Lo avevo portato all’Annunziata qualche mese prima che tutto cambiasse. La suorina deve avermi riconosciuta, nonostante tutto; e allora sì, lo metterò, questo visone. Nel gelo della mia casa come un antro, sarò una bestia solitaria dentro l’intemperia del mio cuore. Eppure sopravviverò. E in primavera uscirò fuori dal letargo perché la vita chiede questo.

La mia vita ora mi vuole così. Potente e viva.