Prendiamo ancora la tua moto e via. Andiamo via. Voglio il vento sulla faccia, senza una destinazione.
Mi hai trovato che ero dietro il banco della pescheria, in centro. Mi hai rapito dall’odore dolciastro dei crostacei. Hai detto: “Ho pescato una sirena, in mezzo a tutto questo mare”.
E non sei bello. Però hai due mani grandi, due braccia dure che trasportano mattoni. Un gigante come una montagna verde. Dove batte sempre il sole.
Sorridi. Sorridi ancora.
Hai continuato a sorridere anche quando mio figlio ti ha aspettato con la faccia cattiva, nel buio della corsia dei box: “Ti faccio fuori, pezzo di stronzo. Tu mia madre non la scopi”. Mi hai rassicurata: “Non importa. Lascia stare”.
E allora andiamo ancora via. Tra le colline. A conquistare il mondo, aggrappati alla tua moto.
È mio figlio. L’assassino.
Me lo ha detto.
Ti ha tirato sotto apposta, con suo padre. Protetti dentro quel furgone.
“Mamma, non mi frega un cazzo se tu e papà ormai vi siete separati. Quella faccia da coglione non ti deve nemmeno sfiorare”. In realtà ho sbagliato io. Sono io che ti ho ammazzato.
Perché quei due, lo stesso gene, in fondo sono uguali. E io da sempre sono cosa loro. Lo so.
Svégliati da questo sonno. Gigante buono. Metti il casco e gli stivali. Fammi sentire il rombo della vita che noi forse potevamo avere.
E invece no. Mio figlio ti ha fatto sanguinare nella testa, ti ha fatto cadere giù dalla tua moto. Ti ha strappato al mondo che volevi. Un mondo di asfalto. E di ruote coraggiose.
Adesso sei un vegetale. Un salice piangente, un tronco nodoso dai rami spessi. Forti.
Ti annaffio di lacrime ogni giorno; quando posso vengo a piedi, non ho i soldi per la moto, io. Oppure prendo il due, che ferma a cento metri dalla pescheria.
Sì.
Per il gigante che dorme, la sirena esce dal mare.
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