Se ascolti bene, quando passi di qui la mattina presto, puoi udire il suono di un flauto arrivare dalle finestre in alto, uno di quelli che i bambini delle medie suonano a lezione. Con le note strafottenti e imprecise, ma tanto indefesse da rimanere attaccate a ogni cosa: orecchie, vestiti, carrozzerie e suole.
Manuel suona tutte le mattine, appena si sveglia.
Tiene il flauto sul comodino. Ha trentasette anni e un impiego in Comune: quello che preferisce fare è rilasciare le carte d’identità delle persone del paese. Fa anche tante altre cose, sia chiaro. Però guardare le facce di uomini e donne che gli danno in mano quattro fototessere, come se regalassero un pezzetto della loro anima, questo lo manda in estasi. Lo puoi vedere con un sorriso scintillante, che a tratti sembra un ghigno. Sempre e comunque bonario, mai cattivo, mai sconvolgente. Ogni volta, però, da quando sono arrivati i cellulari e Photoshop e i filtri e quelle cose tecnologiche che lui non conosce benissimo ma sa che ci sono, è tutto un dire: “Mi scusi, servirebbe una foto meno artistica: sa, quelle delle macchinette, nei sottopassi delle stazioni. Oppure può andare qui davanti, da Fotomia. Loro hanno lo sfondo, quello giusto, voglio dire, neutro…”. Le ragazze si offendono, di solito. E provano a insistere, a dire che no, loro una foto normale, senza filtro, non la fanno.
La maggior parte delle volte Manuel cede.
Anche lui, in fondo, filtrerebbe la realtà con una lente dolce e a tratti rosata, per vivere in un tramonto eterno. Lui, il suo flauto. Magari anche lei. Se solo la trovasse, una lei che se lo porti via, in mezzo a quelle facce in coda.
Certe volte pensa che potrebbe trovare anche un lui. Perché ci sono maschi così belli, che gli fanno tremare lo stomaco. E la pancia. E tutto quello che c’è sotto. Però adesso, come sempre, cerca una donna. La cerca per non dover comprare un cane, quando sarà vecchio, stanco. E la solitudine avrà smesso di fargli compagnia: quando tutto sarà diventato una condanna, la stanza bianca di un malato sedato, il cancello di una villa diroccata.
Manuel lo dice a tutti: “Sono felice, ma…” E non finisce la frase.
In quel ma c’è quella femmina che sente scritta nel destino. Magari la porterà la pioggia, con il suo scrosciare grigio, quando entra dalle scarpe e inzuppa i pantaloni. Sì, una donna pioggia. Che impregni ogni cosa: e dai vestiti passi alla pelle. E dalla pelle passi agli organi. E dagli organi all’anima.
Per questo, mentre suona il flauto e la mattina c’è già quell’odore di bagnato tenace, che vuol dire che ha piovuto o che sta per piovere, Manuel spalanca la finestra. Aspetta che si scateni il temporale, che il cielo pianga storto, con il vento e le foglie arrabbiate.
Aspetta che sbattano le persiane. Le gocce alla finestra, i tuoni.
Nella pozza che si forma sotto il serramento madido, ricorda le grida estive della sua piccola mamma, donnina tascabile e vivace: “Chiudi la finestra! Entra tutta l’acqua!”. Chissà. Forse non è più il tempo di chiudere la finestra: è tempo di far entrare tutto, la pioggia come il sole.
Perché l’amore non si trova se non lo si lascia entrare.
O almeno Manuel pensa così, mentre solleva il coperchio della fotocopiatrice.
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