Ci troviamo quando è buio, spegniamo i fari delle macchine. Scendiamo e accompagniamo le portiere, senza far rumore. Un abbraccio teso. Un altro abbraccio, le gambe addossate. Le mani si sfregano e poi si separano, lasciano spazio ai pensieri, in mezzo alle unghie, che sono nere perché hanno scavato nella terra.
Vai bene, sì? Lei? Hai iniziato il film che ti dicevo? No, ancora no. Lo vediamo, un film insieme? Sì, dai. Ma quando? Dai, facciamo da me, il tiramisù ti piace, vero?
Non dirlo, lo sai che non succede.
La cascina è vicina, adesso non fa ancora freddo. Ci sono angoli bui, antri scuri che non sanno far paura. Anche quando gli occhi gialli dei gatti randagi fanno trasalire: sono le anime dei morti, che ci giudicano. Che ci odiano. Ma cosa vuoi che sia?
Che male facciamo, noi? Nessuno. A nessuno.
Il male vero lo facciamo solo a noi, perché quando risaliamo in macchina ci guardiamo i segni sulle braccia, sul collo. Non è schifo, che proviamo. Non è vergogna. È come un senso di soffocamento, una sporcizia che attanaglia la gola. È la domanda: siamo noi? O sono gli altri? Quelli sbagliati, dico.
Andiamo, adesso. Il dopobarba nuovo ti sta bene.
È fresco, ossigeno. Dammi la mano, Marco, vuoi? No, mi dici, ti allontani. Finiamo prima, stasera.
E andiamo a casa: le nostre donne ci aspettano. Non è giusto farle sospirare, lì, in cucina.
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