Non mi sono ancora abituato all’odore forte dell’incenso. È dolce, sale alla testa attraverso gli occhi. Lo diffonde in modo energico un sudamericano grosso, messo peggio di me: gli mancano ancora otto anni. Rapina a mano armata, gli altri sono riusciti a scappare. Lui no. Lui ha pagato per tutti. I soldi li ha tenuti in mano pochi istanti, qualche migliaio di euro, prelevati a forza da una tabaccheria sulla tangenziale alle sette di mattina.
Io nella cappellina della prigione faccio quello che mi viene meglio: suono la chitarra.
Al sanctus mi fermo, però: stacco le mani dai tasti, abbandono il mio legno che è come l’ultimo legno della mia ultima zattera.
Dita giunte. Prego. Non so per cosa.
Certo non prego più per uscire di galera, perché in questa umidità silenziosa ho trovato qualcosa. Una forma nuova di libertà. La libertà non è uguale per tutti, sapete? Per me è poter mettere il naso fuori dalle sbarre senza il terrore che qualcuno mi trovi. E mi ammazzi come un cane rabbioso, da abbandonare smembrato sul marciapiede.
La musica mi ha reso bello. Ha mitigato quella cattiveria con cui sono nato.
Devo essere arrivato con una specie di marchio addosso, io.
Da quando mia madre non ha trovato nessuno che la portasse all’ospedale e, avendo la carne forte e abituata (sono il più piccolo di sette figli), mi ha buttato fuori da sola, sull’ultima rampa delle scale. Come un escremento ingombrante e fastidioso.
Ho fatto di tutto nella vita, ma questo, lo so, lo dicono in tanti. Io però ho fatto di tutto per mangiare e dare da mangiare.
Ho provato a fare le cose onestamente, giuste. Ho provato ad avere pazienza, ma con il marchio che ho addosso non mi è mai riuscito. Mi veniva più semplice cercare vie traverse. Scorciatoie. Passaggi segreti.
Come per la musica. A dodici anni, ho capito che dovevo suonare la chitarra.
Non mi piaceva niente. Solo l’idea di generare una cosa così bella, che avrebbe cancellato tutti i segni. Tutti i lividi. Tutte le cicatrici. Provate voi a uscire dal corpo caldo di una mamma e a pestare la faccia sul gradino sporco di un palazzone di periferia. Provate voi a non deludere vostro fratello, che è l’unico in famiglia a non vendere cocaina ai minorenni. A difendere vostra sorella, la pompinara della seconda C, ossigenata come un’albanese. Provate a essere nella mia cucina, dove non c’è neanche una porta ma una tenda pelosa da macelleria, e a sentire dalle labbra marmoree dello zio che il debito di vostro padre non è ancora stato saldato. Che lui non si trova. Che prima o poi quelli arriveranno, a guidarli sarà la vendetta, e finirà tutto. A me dispiaceva che tutto finisse. Anche se era brutto.
Avrei potuto lavorare. Avrei potuto mettere via i risparmi di un’estate, piano piano.
Come un ragazzo di coscienza. Un ragazzo normale. Avrei potuto. Ma il mio marchio mi ha detto no, mi ha detto prendi tutto e subito. Altrimenti non prendi niente, non fidarti del tempo. Il tempo è cattivo con i cattivi.
I soldi per la chitarra, allora, li ho trovati nella mia maniera.
Un pomeriggio d’estate, nel laboratorio della scuola. Me li ha dati prima, il professore. Due biglietti da centomila lire, erano lí che mi bruciavano nella tasca. Tranquillo Soglio, non lo dico a nessuno. Togliti gli occhiali, non passa più neanche il bidello con l’anello al mignolo. E l’unghia sporca e dura. Guardami. Mi sono spogliato anche io. Tanto non lo vedi, il mio marchio. Lo vedo solo io, lo vedo da dentro e basta. È una questione di atomi.
Tieni le mani giunte, professore. Non fare niente: i pantaloni te li slaccio io.
Come sei grosso, professore. Da quanto mi volevi? Bravo. Toccami. Il patto è quello là, te lo ricordi? Vieni abbondante. Lo sperma in faccia mi arriva come un’onda, schizza sul microscopio del tavolo di lavoro. Io in realtà sto già pizzicando le corde tese della mia chitarra. Da allora questo manico mi ha tenuto a galla, mi ha tenuto umano. E tutto il male che mi porto dietro è un bene nelle note.
Ecco perché adesso al sanctus mi fermo, sto così. Smetto di parlare con la musica.
E tengo le mani giunte. Perché il mio marchio è lí, dentro i palmi delle mani.
Mani lorde. Lorde da sempre. Ma sante. Quando attaccano a suonare.
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