Le lettere felici.

C’era una volta un paese.

Piccolo e grazioso, con le casette ordinate e ben curate. I tetti rossi e spioventi, le persiane verdi e lucide. E i fiori, tanti fiori. Vasi di bellissimi gerani rossi e rosa a ogni finestra. Un corso d’acqua lo attraversava, era un torrente mansueto, che addolciva le sere d’estate con il suo incedere tranquillo, composto. A dispetto di questa cornice patinata, i cuori degli abitanti erano infelici. Le persone vivevano come piccoli mondi isolati: ciascuno cercava di godere in solitudine della bellezza che lo circondava, osservando di sfuggita un panorama che offriva consolazione a piccoli e grandi dolori, dando la forza per continuare. Così vedevi tanta gente che si parlava, ma soltanto per scambiarsi istanti di convenevoli.

Contatti esteriori da quieto vivere.

Equilibrio precario di una collettività che convive, ma non condivide. In verità le giornate erano dominate dalle notifiche sui cellulari. E le persone erano abituate a messaggi veloci, superficiali: non c’era tempo, perché sui telefoni c’era tantissimo niente da fare. Per questo le strade erano gremite di automi che si salutavano appena, digitando a più non posso sugli schermi ultrapiatti di ultima generazione. I paesaggi, meravigliosi e rigeneranti, non si guardavano. Si vedevano appena e si fotografavano. Infiniti giga di immagini filtrate venivano subito inviati a cerchie di conoscenti vicini e lontani.

E si pensava, in tal modo, di non sentirsi soli.

Una miopia cattiva dominava le menti di questi uomini, convinti di essere in contatto con il mondo intero, senza rivolgere nemmeno uno sguardo al proprio vicino.
Un bel giorno arrivò in paese un signore dal sorriso arguto. Occhi piccoli e profondi, che sapevano scrutare al di là. Gambe allenate dalle corse in bicicletta, polpacci solidi e combattivi. Un uomo che non aveva paura. Perché la paura l’aveva conosciuta. E domata.

Quell’uomo era un postino.

Un postino? E cosa doveva mai consegnare, un postino, in un paese dominato dalla fretta dei messaggi sui cellulari, che tutto portano a galla per poi erodere e cancellare?
Il postino era arrivato per consegnare lettere. Lettere che contenevano soltanto belle notizie. Rimasero disorientati, gli abitanti, ma soltanto all’inizio. Qualcuno le cestinò al primo istante, perché erano troppo lunghe, altri lessero quasi dieci righe e poi se le dimenticarono sul mobile dell’ingresso. Chi si prese il tempo per arrivare alla fine della propria lettera, invece, avvertì una sensazione di pienezza. Di gioia. Di felicità inattesa. Di completezza, quasi.

Le lettere rivelavano quello che gli abitanti avevano sempre desiderato sentirsi dire, nel profondo.

Ma le persone lo scoprivano soltanto se dedicavano il giusto tempo alla lettura, fermandosi. Abbandonando i tempi vorticosi del vivere quotidiano. Tutto questo leggere e regalarsi del tempo portò le persone a parlarsi. A rallentare il passo. A confrontarsi.

E allora le vie del paese si animarono di dialoghi. I tramonti non furono più stupendi e silenziosi. Furono sublimi e carichi di sussurri. Di intese. Si formavano capannelli in piazza, fuori dai negozi.

Gli abitanti si scoprirono comunità.

E i telefoni? I telefoni rimasero in carica, sui comodini, nel fondo delle borse. Il postino consegnava. E scriveva. Era lui, il magico scrittore delle lettere felici. Le persone presero ad amare così tanto queste missive portatrici di gioia e di conversazioni, che impararono a propria volta a scrivere. A scambiarsi lettere. E racconti di momenti preziosi. Pensieri, riflessioni. Il ritmo rallentò. La gente smise di invecchiare, se invecchiare significa veder sfumare la propria vita, lasciandosi divorare da lancette frettolose.

E così, un bel mattino di aria primaverile, con la rugiada che rendeva luminosi i fili d’erba appena nati, il postino se ne andò. Per portare altre lettere. Per insegnare ad altri uomini a trovare la felicità, dentro di sé e negli altri. E a viverla davvero.