Mettimi sulla giostra, amore mio. Aiutami a salire, dammi la mano. Ecco, così. Adesso siediti tu, qui, vicino a me. Saliamo, vedi? Ho sempre amato le ruote panoramiche, ti portano su, ti fanno respirare in alto, con il cuore un poco in gola.
Sembra di toccarle, le nubi dense di questo cielo. Mandiamole via, se vuoi.
Facciamo tornare il sereno nelle nostre vite che hanno preso un’aria forte, quella che soffia appena prima di un temporale. Siamo stati a lungo in quel campo di grano sferzato dal moto energico del vento, noi papaveri orgogliosi e indifesi, innamorati di un sole appena accennato.
Due è un bel numero, no? Non siamo soli, siamo due. Siamo noi.
Non voglio più contare i mesi, amore. I giorni e le ore. Per far arrivare qualcun altro nella nostra casa. Nel nostro cuore.
Ci siamo noi e dobbiamo essere felici, perché la vita va vissuta adesso, per quello che è. Non per quello che poteva essere, se ci fosse un bambino qui a guardarci, nel sedile di fronte, a spalancare la bocca dentro il cielo, a prenderci la mano, a dirci “mamma, papà, vi voglio bene”.
È finito il tempo della ricerca disperata, spasmodica. Del sangue dentro il water, che è il mio cuore che sanguina, in realtà. Dei test inutili ogni trenta giorni, delle punture nella pancia che fanno male, non come dicono le infermiere dell’ospedale. Quelle che non si ricordano mai come mi chiamo.
Quattro volte sono tante. E sembra che il problema non sia tu. Non sia io.
Il problema siamo noi due, insieme.
Ce l’hanno detto un pomeriggio che faceva caldissimo e avevo una vescica sul tallone destro, come bruciava. D’un tratto tutto era freddo. Gli occhi erano un vaso colmo di acqua salata, bastava un pulviscolo di nulla per buttarla giù, come un acquazzone sul greto secco del fiume. Le parole sono uscite di fuoco, in mezzo alle nostre bocche asciutte, che passavano vicine alla rabbia, all’odio forse: quella notte sono stata sveglia, ogni ora, ogni minuto. E pensavo che potevo andare. E farti andare. Potevamo fare un figlio quando volevamo, ma non nostro, non insieme. Mi ha tentato, allora, il pensiero dei piedi paffuti, l’odore di latte che esce dai capezzoli ingrossati. Mi ha tentato la guancia morbida di pesca, il pianto disperato del ginocchio sbucciato in bicicletta. Mi sono alzata, ho aperto l’armadietto dei liquori: volevo berli tutti, per riuscire a non pensare, scia cattiva nello stomaco, fiotto amaro che magari uccide. Anche tu eri sveglio. E fingevi di dormire. Io fingevo di crederlo.
Gli amici. E i genitori. Non lo fate, un bel bambino? Sono anni, ormai, che state insieme. Se stiamo insieme, non possiamo fare bambini.
Per la prima volta ho il pensiero vivo nella testa, mi si legge sulla fronte, qui, davanti allo specchio del bagno.
Lavo gli occhi. Lavo la bocca. Mi muovo nel buio.
Torno a letto, accanto a te che fai finta di dormire. Anche io, adesso, faccio finta di dormire, ma il cuscino è bagnato e queste lacrime sono dure da asciugare. Sono lacrime di consapevolezza. Lacrime di scelta: voglio te, amore. Perché tu sei qui. Abbracciami. Noi siamo soli, siamo noi. E da adesso ci bastiamo.
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