La finestra con le sbarre.

È uscito veloce e mi ha lasciata qui, appoggiata al muro.

Sotto la mia finestra con le sbarre, la luce che invade lo spazio nero. Il vestito si è abbassato da solo. È pesante, adesso. Devo cambiarlo perché inizia a fare caldo, è primavera.

Mi metteva quattro dita in bocca, questa volta. Ed è stato più animale. La sua pancia gonfia mi premeva sul bacino. Sotto le narici quell’odore di vernice e trielina.

Vieni, vieni in me. Senza paura. E sparisci.

Io ti accolgo, ti aiuto a farti largo e provo a non godere, ma è difficile: sei bravo, non mi tocchi, non mi baci.

Sei la terra che spinge contro il cielo. E a me ha così stancato, il cielo.

Voglio i lombrichi nella pancia, voglio la puzza di bagnato.

Voglio un seme che mi inondi, un pulviscolo liscio da custodire e riscaldare: è un giglio bianco che uscirà dalla mia bocca. Ogni volta che sorrido, avrò il solletico di un petalo nella mia gola.

Torna quando vuoi, a innaffiare il mio giardino.

Torna quando gli altri ti chiamano tarato. O strano. O bestia infame. Torna quando il muro è finito. O è finita la latta di vernice.

Non si lava, il peccato. Il peccato è un pennarello indelebile. Copriamolo e basta.

Come la mia testa, che inizia a diventare grigia.

“Suora Ada!” la voce di Don Vincenzo è un tuono nel mio cielo ventoso.

“Arrivo, sono qui! Prendevo le candele per l’altare”.

Veloce, mi rimetto il velo e copro il mio peccato.