La fine della galleria.

Non credevo di poter uscire.

La galleria della mia vita certe sere mi è parsa infinita, appoggiata alla parete fredda del muro a lato del letto. E adesso che intravedo la bocca rotonda che conduce fuori, la sensazione che provo, tangibile e opprimente, è la paura. Un morbo strisciante che mi schiaccia, non fa muovere nemmeno un muscolo, nemmeno le palpebre. Mi viene quasi da fare marcia indietro. O fermarmi qui, nel bel mezzo di questa strada cattiva e scivolosa.

Otto mesi di casa di recupero sono tanti: è un vivere da mosche, un susseguirsi di giorni fatti di momenti non tuoi, di maschere per sopravvivere. Di docce obbligate e code. E mensa senza coltelli. Ci sono uomini svuotati che parlano da soli seduti sulle sedie, in pigiama. Donne provvisorie con lo scialle in testa e il fiato misto di fumo e caffeina.

Il mio dottore, però, era bello. Le mani, soprattutto.

E alcune volte ho creduto mi toccasse, mi prendesse. Invece non è successo mai. Però è stato bravo: ha capito subito che ho bisogno soltanto di ventuno gocce per dormire.

Sono nata così: ho sonno da una vita, ma il mio corpo non mi fa fermare mai. Mi sdraio e sento le gambe percorse da un fuoco, un fulmine. Si muovono sempre. La testa, poi, va dove vuole lei. Milioni, miriadi di pensieri che si animano nel buio, come demoni assetati. La notte mi porta dolore. Anche fisico. Mi strapperei gli occhi, per riuscire a dormire. Eppure so che quello che vedo non è dentro gli occhi: è appena dietro, tra il cuore e il cervello.

Sono come ricordi di vite future.

Non sono matta. Non sono più matta degli altri, voglio dire. Ho solo quel terrore che mi blocca, il terrore della notte: perché è il momento in cui devo dormire e non dormo. Non avere coscienza. E invece penso. Un criceto, sono. Giro giro giro dentro la mia ruota, mi guardo allo specchio. Rimango sdraiata nel buio. Conto le stelle, ferite, le grane del rosario di mio padre. Sì. Conto anche le fotografie. Ne avevo appese tantissime, sulla parete dove era appoggiato il mio divano: nessuna con me, perché mi odio dentro le fotografie. Erano foto di persone, tutta gente che non conoscevo, scatti che rubavo nelle piazze e nelle strade, tutte mani che provavano a salvarmi, a tirarmi fuori dalla notte. Ad abbassare le mie palpebre, magari.

Quella volta lì, poi, non volevo uccidermi davvero: volevo solo dormire.

Però Serena si è spaventata e ha chiamato l’ambulanza e da lì, da quel tubo che mi tirava fuori pillole e vodka dallo stomaco, è cominciato tutto. Va beh, ma chi non è disposto a tutto pur di dormire, dai? Adesso sono guarita, sembra. Ho le mie nuove gocce, i dosaggi sono quelli equilibrati e mi fanno svegliare giusta giusta alle sette di mattina. Il dottorino mi ha accompagnato al cancello della prigione, del manicomio, della casa di recupero, insomma di quel purgatorio lì. E fuori c’era Serena la dolce, con gli occhioni verdi e grandi come rane. Adesso sono in macchina con lei che mi riporta a casa. Alternanza di buio e di luce: gallerie e cieli immensi, senza nuvole. Adesso ho ancora la paura, certe volte quando sono nel ventre della galleria. Ma anche quando sono sull’asfalto cotto dal sole.

La paura è intermittente, ora, come le lucine dell’albero di Natale.

Ed è bella, se vuoi, come loro. Perché mi fa ricordare quello che ho passato, come sono stata brava, che il confine è labile e sottile e devo essere ancora più brava. Coraggiosa. Serena si volta verso di me, vede la mia lacrima lieve.

Mi accarezza: “Ce la fai. Ce la facciamo”.