C’è una montagna gigantesca che buca il cielo. Ha già addosso una spruzzata di bianco, uno schizzo di neve fresca che arriva a fine ottobre, quando il vento spezza le ossa della faccia, entra in tutti gli anfratti bui. Sono arrivato qui. Sotto la croce. Lo aspetto come sempre.
Rumore di tacchi lisi.
Ho alzato gli occhi e l’ho visto arrivare: la sua faccia è la solita, un filo di barba che dà al volto il segno di una fatica buona, giusta. Gli occhi sono sempre pieni d’acqua, un torrente indeciso che non esce dal suo corso. Magro, con le spalle strette e le ginocchia appuntite, a uscire dalla tuta da lavoro. Ha finito il turno adesso, le mani sono ancora sporche, un misto denso di grasso, polvere, segatura.
Lo beviamo, un crodino? Ma sì, lo beviamo.
C’è aperto il Caffè della Piazzetta, si va lì che c’è la Rosy con le labbra grosse. E quel genio di Renato, abbarbicato allo sgabello grigio. Lui, la slot e il solitario con le carte. Che odore di fumo, ma chi è che fuma ancora?
Un attimo prima di entrare al bar, Moreno mi prende per un braccio.
“Prima o poi mi beccano, Dario”.
“Ma va’, che cazzo dici?”. Mi viene da ridere, in questo mondo nero che ci prende dentro, ci cattura con una rete smagliata.
Mi domando cosa sia successo, al Moreno che spaccava tutto. Il Moreno sbruffone, con il ciuffo ossigenato, il grande capo che trovava sempre un modo. Ha il terrore, adesso: non è più sicuro. Ha iniziato il mese scorso a rubare in fabbrica. Ha rubato ai poveri cristi come lui, come noi. L’ha fatto in pausa pranzo, nelle tasche delle tute degli operai. Ha raccattato venti euro o giù di lì.
L’ha fatto per una voce che non so. Per vantarsi con me, con sé stesso. L’ha fatto per fare qualcosa.
Ma è convinto, ora, che le telecamere lo abbiano ripreso, che qualcuno lo abbia visto e sia pronto a licenziarlo. O peggio. Ad ammazzarlo come un cane bastardo nel turno di notte.
Così stiamo immobili, sulla porta del Caffè della Piazzetta; la Rosy ci guarda con le labbra socchiuse, più grandi del solito. Moreno non entra. Si volta, osserva la croce, la statua che sta lì a ricordare i caduti della Grande Guerra.
“Ho paura, Dario” mi dice.
Moreno ha paura di una cosa che non è la telecamera, non è il capoturno, non è il padrone della ditta. Moreno ha cominciato a capire. Sente gli occhi della montagna che lo frugano dentro.
“Glielo dico, che ho rubato, confesso prima che lo scoprano loro. Così non è un problema, no? Si sbaglia tutti, vero? Tutti possono sbagliare”.
Attento, Moreno. Ti rovini con le tue mani.
“Fa’ come vuoi”. Taglio corto. Sono stanco, stasera.
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