Il salice.

Così strano sei, salice. Stai ritto e solido, un guardiano integerrimo che ha trovato la pace.

Non piangi, tu. Sei bravo.

Io invece lascio che le lacrime scendano, voglio sentirle inondarmi il viso. Mi voglio affogare in queste gocce come barili sotto sale, perché mi sembra l’unico modo per resistere, per tornare a respirare.

Scusami. Perché sto per fare quello che devo fare.

Ho portato il taglierino di mio padre, l’ho scovato in fondo al cassetto, quello che usava durante il trasloco. Devo scrivere la data di oggi, salice. E lo devo fare sulla tua corteccia, così come dentro la mia pelle trasparente. Comincio a incidere. Ti faccio male? Aspetta, adesso tocca un poco a me. Mi taglio sull’avambraccio, piccola fessura in superficie. E poi ancora a te. E poi a me. Vado avanti, posso? Ho quasi finito.

Tra poco avremo le stesse cicatrici, io e te.

Tu continui a rimanere fermo e zitto. Non piangi. Così strano sei, salice. Però adesso non piango più nemmeno io. Ho portato cerotti e disinfettante. Ho portato una caramella alla liquirizia, l’ho scelta tra quelle vecchie e dure di mio fratello, che lui non mangia più.

Bello, avere la pelle.

Come terremmo insieme i nostri organi, se no? Pensa che disastro: cuori in giro, nervi impazziti. E i cervelli? Grandi noci grigie a riversare nelle strade chili di pensieri astrusi. Inutili.

Una goccia spessa, appiccicosa. Piangi, salice? Fammi sentire. Che sapore forte: non è acqua, questa. Questa è linfa. Mi regali un po’ di sangue, allora. Mi cospargo e ti ringrazio. Carezza stanca, ripetuta.

Torno là. In ospedale questa sera tocca a me.

Sono io che devo fare il salice non piangente. Mamma muore e deve vedermi felice, portare dentro negli occhi il mio sorriso.