Ce l’hanno fatta anche quest’anno, sono venuti al mare.
I bambini in Riviera si divertono sempre e loro “cosa vuoi” , dicono, “stanno bene i piccoli, stiamo bene noi”.
Lei è una donna di quasi quarant’anni, la pelle gualcita dalla Nivea del discount, abituata ormai a fare i mestieri in casa della gente, perché la ditta dove faceva l’operaia specializzata ha spostato la produzione in Romania.
Il marito è un tipo corpulento, tatuato: lavora in officina con il cognato, una manciata di ore al giorno e solo in nero, per continuare a percepire il sussidio di disoccupazione. Origine campana, trapiantato al Nord da molti anni, con l’idea in testa di tornare a casa, un giorno, da signore. Il desiderio recondito di comprare una terrazza bianca a Posillipo, dove fumare, la sera, guardando la roccia e il mare.
Non si amano più. Però si sono abituati.
Ai loro gesti, ai loro odori, ai suoni delle loro voci: questo è l’amore, per loro. Avere la certezza di una presenza quotidiana, un ammasso di carne e sangue per non affogare da soli. Lei non lo cerca mai, però se lui ha un po’ di voglia lo lascia fare, animale massiccio e inoffensivo, con gli occhi chiusi e un abbandono tranquillo, che viene dalla testa più che dal cuore. Nel frattempo ripensa a quando hanno deciso di sposarsi, quindici anni fa. E tutto era buono. Possibile.
I bimbi sono arrivati tanto tempo dopo, quando si erano rassegnati a stare in due, a prendere un cane grosso e fiducioso, e l’unica che ci soffriva era la madre di lui, che voleva una nipotina per insegnarle a fare il punto croce. Prima è nato Giuseppe, il prepotente, che adesso ha sette anni e gli occhiali di Spider-Man. E poi Luca, il timido, tre anni dopo. Due maschi. Adesso iniziano a capire che mamma e papà non sono ricchi, ma tirano a campare. Con una fierezza e un orgoglio che certe volte diventa cattiveria, una bestia ingorda che morde gli altri ed erode il mondo. Mamma e papà hanno quella fame che non li fa mai rispettare le code: pestano i piedi a tutti, perché devono arrivare per primi.
Loro, che la vita ha fatto partire per ultimi.
Così è tutta una smania, un arraffare con mani come artigli: i piatti del buffet, per esempio. E Giuseppe un pochino si vergogna, perché pensa che quella fame lì li porterà allo scoperto, prima o poi, anche in vacanza, quando il papà fa finta di fare il ricco galantuomo, ma tutti sanno che sono un gruppetto di morti di fame. E che se nasci così, così ci muori. Adesso ha capito che i suoi genitori fanno di tutto per racimolare qualche soldo in più e andare in vacanza ad agosto: altrimenti non è vita, non è dignità. Bisogna fare l’esodo degli Italiani, far parte della colonna di macchine di cui parlano i telegiornali.
Allora sì che siamo giusti. Sì che siamo vivi.
E in vacanza mamma e papà diventano più belli, più sereni, più solari: Giuseppe vede la vacanza come una mano che passa sopra un vetro appannato e toglie la patina opaca, fa uscire di nuovo la limpidezza dei cuori, sepolta sotto una coltre di problemi piccoli, ma numerosi, sommati ai trilli delle sveglie e alle notifiche dei cellulari. Indifferenze opprimenti come vapore acqueo, battaglie striscianti quanto i vermi nella pioggia, accumulo incessante della quotidianità. Luca, invece, ancora non ci pensa: in fondo a lui bastano le macchinine. Un pallone di Nemo. E un paio di braccioli. Giuseppe sa che è giusto così: suo fratello può fermarsi lì ancora un po’. Può stare in superficie, dove tutto è pitturato bene, solo qualche crepa che non noti quasi.
Oggi Luca è nervoso, come sono nervosi i bambini troppo entusiasti delle novità, criceti impazziti su una ruota indemoniata al luna park. I loro genitori hanno scelto la spiaggia più bella di Rimini, la più cara: giochini, gonfiabili, pedalò.
Divertimento obbligato. Felicità imposta.
Luca non sta fermo, corre da un’altalena a uno scivolo. E poi giù giù fino al mare con il retino e la barchetta. Mamma e papà lo seguono con gli occhi, ma stanno discutendo. Cose grandi, cose loro. Forse da questa discussione dipendono i destini di tutti, della loro famiglia, del mondo intero. Luca chiede attenzioni. Adesso strilla arrabbiato. E Giuseppe vorrebbe soltanto andare via, ha trovato altri bambini, la stessa età, le racchette da ping pong più belle che abbia mai visto, rosse fiammanti e leggerissime. Però ha paura. Teme che Luca, senza le sue dita a guidarlo sui giochini, si trovi solo, si faccia male. Chiama mamma, chiama papà. Loro parlano, parlano. D’un tratto, secca e adirata, la mamma esclama: “Giuseppe, vai! Ci penso io, tu vai!”
E tiene le mani intrecciate in quel modo che lui conosce bene: c’è dentro un milione di schiaffi.
Schiaffi contro tutti. Per dire al cielo cose vere, senza filtri, senza calmanti, senza occhiali neri. Sono segni della fame, anche quelli. Giuseppe ama suo fratello, più di tutti gli altri. Ma in questo istante c’è come una sospensione di questo amore. C’è un istinto animale, che è spinta alla sopravvivenza, quella voglia sana di non guardare in faccia nessuno, camminare a testa bassa per dove si deve andare, guardando soltanto la punta dei propri piedi muoversi, arrivare. Giuseppe va. Si trasferisce con Samir e Lena nel bagno vicino, tra i campetti di bocce e di ping pong. Vive la sua vita, adesso. Perde anche la cognizione del tempo. Lo riscuote un annuncio alla radio dello stabilimento balneare, introdotto da una campana violenta: “Stiamo cercando un bambino di quattro anni, di nome Luca Esposito. Luca indossa un costumino verde. I suoi genitori lo aspettano ai Bagni Ricci 156-157”.
Lo sapeva. Fa cadere la racchetta, riprende in mano il suo ruolo, interrompe quell’allegria molesta che forse è semplicemente vita. E corre da mamma e papà. Li vede come spettri, d’un tratto bianchissimi, loro che si stavano abbronzando con perizia e ostinazione, come africani, per mostrarsi belli e rilassati al rientro, tra le corsie del supermercato. Giuseppe guarda suo padre, la faccia di un toro che distruggerebbe la spiaggia intera. Poi sua madre, la bocca amara, nascosta da un fazzoletto bianco. Insieme a loro, due bagnini. Rimane a debita distanza, perché il padre gli ha già lanciato uno sguardo eloquente, uno di quelli che segnano. E non perdonano. Giuseppe sa che la colpa ricadrà su di lui, il fratello egoista e distratto. Poveri genitori, due maschi così ti fanno invecchiare prima del tempo. Giuseppe si vede già nei titoli dei giornali. C’è una cosa, però, che lo addolora più di tutto, più della certezza di questa calunnia malvagia. È la verità sotto i gesti da bravi attori, perché lui ormai sa, riconosce i segni.
Ormai ha perso l’innocenza di uno sguardo puro, che vede solo fuori.
Giuseppe ha come una fitta allo stomaco quando capisce che, in fondo, i genitori vorrebbero che Luca non tornasse. E lui stesso non tornasse. Riavvolgerebbero il nastro della loro vita, allora. Sarebbe più facile e felice campare in due perché in due si sopravvive bene, senza sacrifici e rinunce per figli e famiglia.
In due si vive in vacanza, si vive da signori.
Il padre forse legge il suo pensiero, perché arriva con incedere pesante, cattivo: “Che guardi, Giusè?” la voce scura e bassa. ” È chiagni, su, che pare ca nun te interess nientè e’ isso”. Lo riporta una donna grassa e di colore. Luca non parla. Mamma lo riabbraccia e lo stringe da farlo soffocare. Papà ha i pugni serrati. Tutti sorridono. Giuseppe sospira di sollievo: finale buono, positivo.
Storia da raccontare, di questo avventuroso Agosto di mare.
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