In mezzo alla campagna c’era una piccola fattoria con le finestre quadrate e il tetto marrone.
Intorno, tanti campi. Campi da arare.
Il fattore, che era rimasto vedovo e viveva da solo con il figlio Fortunato, appena undicenne, amministrava la proprietà con precisione, tenacia e serietà. Era un uomo di una volta, rigido e onesto. Un lavoratore dai sani principi e dai sacrifici eroici. Un padrone che aveva anteposto il lavoro allo svago, sempre. C’erano pochi animali in quella fattoria: cinque galline, un gallo, un maiale, un’oca e un cavallo. Il cavallo era piuttosto anziano, si chiamava Arcibaldo, si diceva che avesse origini nobili e che avesse trainato le carrozze reali. Poi era invecchiato. E il cocchiere di corte lo aveva condotto alla Fiera Zootecnica dell’Ovest, dove lo aveva venduto al padrone della piccola fattoria, più o meno con queste parole: “Arcibaldo è un gran lavoratore. Non si preoccupi se non ha una carrozza da tirare. Un aratro andrà benissimo. Ma mi raccomando, gli faccia sempre indossare i paraocchi, perché è distratto e persino un po’ fifone: è bene che guardi sempre innanzi a sé, concentrato sul campo da arare”.
Così avvenne: il fattore condusse Arcibaldo alla fattoria.
E da quel momento il cavallo, con i suoi paraocchi neri, cominciò a lavorare nei campi. Più il tempo passava, però, più il suo passo diventava lento, la sua camminata disordinata. Si fermava spesso e sembrava preferire lo schiocco della frusta all’incedere spontaneo dei propri zoccoli. La resa era meno che dimezzata. Il fattore era in ritardo con le coltivazioni e da serio e preciso si fece aggressivo e tormentato.
“Arcibaldo, sei un ronzino fannullone!”
“Arcibaldo, muovi quelle zampe! “Arcibaldo, maledizione, mi sono fatto imbrogliare al mercato! Ma adesso ti faccio vedere io. Bestia infame, cammina!”.
E intanto aggiustava i paraocchi, quasi premendoli contro i bulbi oculari, in modo che il cavallo non potesse veder nulla ai lati e il suo sguardo fosse dritto davanti a sé.
Un pomeriggio Fortunato, che tornava da scuola, vide questa scena. E non era la prima volta. Allora si avvicinò al padre, gli prese la mano, rischiando a propria volta una valanga di improperi. “Papà, posso aiutarti?” Il padre dapprima ansimò, poi gli apparve il volto della moglie, proprio dentro le guance sode del figlio.
E allora annuì, sempre rigido, sempre burbero. E in quell’istante anche triste.
Fortunato fece una sola cosa, che al padre parve un atto bizzarro, un gesto azzardato: tolse i paraocchi ad Arcibaldo.
Il cavallo non nitrì, non sbuffò. Rimase dapprima fermo, una statua di marmo in una piazza di città.
Poi iniziò ad andare al passo. E poi ancora al trotto. Infine riprese a fare il suo lavoro. Tirava, tirava.
Un po’ guardava avanti, un po’ lanciava occhiate al mondo intorno.
Il suo ritmo aumentò, aumentò la precisione dei suoi passi. E nei giorni successivi il rendimento fu sempre migliore.
Da allora il fattore capì una cosa davvero importante:
comprese che per andare dritti occorre guardare anche di lato, anche a ciò che ci circonda.
Che solo guardando il mondo intorno possiamo percorrere la strada che abbiamo davanti. E sapete cosa accadde poi? Che il fattore e il suo cavallo fecero il primo, grande sorriso. Insieme.
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