I fiori finti.

E cosa importa, se sono fiori finti? I fiori sono sempre fiori.

E questi durano di più, anche in mezzo al gelo. Sono un regalo che mi hanno portato qui mia moglie e mio figlio, mentre li vedevo pregare con le labbra chiuse. Io stavo schiacciato, dentro il mio loculo freddo.

Sono morto che non me ne sono neanche accorto. Ho lasciato un mondo che mi ha dato tanto, perché ho saputo prendermi quello che volevo. L’incidente no. Non lo avevo previsto.

Però non mi rassegno: in Cielo non vado ancora. Sto qui, a metà.

Con uno stato di coscienza sospesa, che mi fa guardare tutti. Qualcuno si accorge di me, come mia moglie, l’altra sera. Le ho asciugato una lacrima. Ha spalancato gli occhi nel buio del lettone, come faceva Davide quando aveva pochi mesi. “Guarda i nonni”, dicevamo, “li vede solo lui, perché sono essenza adesso”. Noi morti, forse, andiamo nello stesso posto da dove vengono i bambini.

Io non so cosa sono. So che non mi fa male niente.

So che mi sono perdonato: per ogni frode, ogni tradimento, ogni follia che mi ha guidato nella vita.

Mi sono perdonato per la maschera che avevo: quella che mi ha fatto vincere sempre. Da perdente.

Avevo imparato a non vedermi mai, anche se cercavo la mia immagine in continuazione: negli specchi, nei riflessi delle vetrine. Negli album di fotografie come nell’acqua lurida delle pozzanghere nelle strade sterrate.

Guardavo volentieri il burattino che ero diventato, per la pace di tutti.

Poi la macchina che mi ha travolto in autostrada mi ha ridato la mia faccia. Sangue dappertutto. Mia moglie a casa, con quel carabiniere che la teneva su, grosso come una montagna brulla. Davide ha mollato tutto, in università. È arrivato in camera mortuaria. Stava lì, in piedi, vicino sua madre che accoglieva gli operai della nostra fabbrica, con il fazzoletto nascosto tra le mani. Davide le si è accostato al fianco.

Le ha detto, a mezza voce: “Mamma, papà ha una faccia nuova. Lo vedi? Non sembra neanche lui”.