A guardare fisso il tavolo di formica grigia. Un continuo tamburellare delle mani, che si accarezzano e si passano una fede liscia e scura.
Io sono seduto di fronte a lui. “Sono il suo avvocato. Faccia come le dico. E forse ne veniamo fuori”. Lui non mi risponde. Mi ignora.
Rompe il silenzio un ronzare scomposto, attorno alla lampada che sfarfalla noiosa. Un animale piccolo e forsennato, che si adagia pesante davanti alle sue dita, affusolate e senza posa.
È una cimice.
Ho tutto il tempo di fermarmi in questo flash, un bagliore della mente. Un ricordo. Eccomi lì, sul pianerottolo. Nove anni. Trentaquattro anni fa.
Sono un ragazzino gracile, bianco in faccia. A scuola sono sempre solo. Passo le giornate a cercare di evitarlo: il ripetente della Quinta A. Chiuso dentro il cerchio scuro dei suoi quattro difensori, una corte di soldati tutti uguali. Tonti, sottomessi e abilissimi picchiatori.
Il minimo che possa capitarti, se sei pallido e secchione, è che scendano alla tua fermata del pullman, ti strappino lo zaino dalla schiena e ti rovescino i quaderni dentro una pozzanghera. E magari, veloci, si calino le braghe, si prendano i piselli in mano e aggiungano all’acqua piovana un getto violento di piscio acido, odoroso.
Ho deciso.
E l’ho fatto mentre non dormivo più, una mattina presto, prima di prepararmi per andare a scuola. Non so picchiare, io. Allora devo evitare che mi tocchino, perché in quel caso io non so reagire. Sono un morto bianco che cammina. È marzo e le cimici cominciano a imbrunire: le trovi dappertutto, le prendi con un po’ di carta igienica, senza schiacciarle, e le butti nel water. Da adesso basta, non le butto più: la mia idea è averne tante, circa mille. E farmi un’armatura segreta, che rilasci quel puzzo nauseabondo non appena qualcuno mi sfiori. Ne sono sicuro: il cattivo fuggirà disgustato dall’odore e io sarò salvo. E vincitore.
Mi addormento tranquillo: sono una cimice furba, ora.
In un mese raccolgo molte bestioline, le tengo in varie scatolette, nelle tasche e nello zaino. Custodisco i pezzi della mia difesa. Poi qualcuno mi scopre e mi tradisce, perché una mattina, dopo la campanella, lui mi si para davanti. Muscoli grossi e candela al naso. “Hey, mi hanno detto che giochi a fare la cimice. Ma lo sai che mi fai schifo? Fatti dare una lezione. Tu non sei una cimice, sei un verme! Un lombrico viscido da far vomitare!”. Sputo denso. Sulla mia guancia destra. Io, immobile. Trattengo la pipì. Un solo pensiero: non farmela addosso. Per favore.
Mi fruga. Mi tocca. Cerca nell’inguine. Trova la tasca. Respiro affannoso.
La scatolina con le cimici marroni.
“Ah! I pezzi della tua arma misteriosa! Eccoli qui!” La risata, gutturale, è di quelle che fan male. Mi butta a terra. Si siede sul mio torace, mi opprime, non respiro. Non mi viene da urlare. Non passa nessuno? Non ci vedo. D’un tratto si blocca. Smette di ridere, smette di parlare. Mi infila un dito tra le labbra, mi tocca gli incisivi, se ne frega se le mie cimici puzzano. Anzi ne schiaccia tante con le mani. E me ne getta una manciata in bocca, giù giù fino alla gola.
Mi grida “Mastica! Mastica, verme!”.
Si alza e mi lascia lì a morire. Mi vomito sulla felpa. Mi metto su un fianco, la testa coperta dai palmi delle mani. Faccio i conti con la mia idiozia.
Sono una stupida, ingenua, impaurita cimice che puzza di cadavere stantio.
Una cimice illusa. Da tirarci sopra lo sciacquone.
Sbatto le palpebre. La lampada sfarfalla ancora. La spengo. Sai che c’è? Che le mie cimici mi hanno insegnato a resistere: a esistere, a esistere sempre, a esistere ancora.
Se hai mangiato le cimici, sei diventato immortale.
Per questo oggi sono il più bravo a difendere i peggiori, gli assassini, gli stupratori.
“Parlami. Sei fortunato, verme, sei fortunato. Io sono il migliore”.
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2 Commenti
Betty
23 Agosto 2016 at 21:33
Francesca Crippa
27 Agosto 2016 at 8:25
Anche questa è una storia che lascia il segno. E anche questa sera abbiamo avuto la nostra storia di vita. Grazie alla fantasia di Francesca.
Grazie a te cara Betty. Hai sempre parole molto belle per me! Un abbraccio.