Arezzo. Esterno giorno.

Ancora, l’ha dimenticato. Ha lasciato a casa l’ombrello.

Adesso che le nuvole si addensano corpose nel cielo di Arezzo. Si raccolgono fitte, alcune bianche, alcune grigie, già grevi di pioggia. È uscito di corsa per trovare i suoi amici, camminare fianco a fianco in Via Italia, fermarsi e spiare lei che parla fitto con la sorella, un cane piccolissimo al guinzaglio sottile. Dalle scale la madre ha provato a dirgli “aspetta, l’ombrello!”, ma lui era già fuori a bere la vita in un sorso solo, piedi veloci che sgretolano selciato e futuro.

Lei è salita in cucina, allora.

Ha lavato i piatti della cena silenziosa, un po’ di panzanella la prepara sempre, va bene anche domani, va bene tutte le volte. Ha quel sapore che rimane nella bocca. Il sapore dei ricordi che vengono a galla quando il brutto si ritira giù, decantando nel fondo del barile. I polpacci le fanno male, anche se ormai è una vita che fa strade in salita e lastroni sconnessi.

Ha una famiglia bella di tre persone: l’uomo che ha sposato, che ha deciso di amare per tutta la vita, dopo un mese che lo conosceva. E un figlio maschio con le mani sporche di farina, garzone attento di panetteria. Quando stende i panni, al filo fuori dal balcone, li vede arrivare tante volte insieme: il figlio uguale al padre, solo un po’ più alto. La stessa camminata sospesa, dei piedi grandi che planano a un centimetro dal pavimento. Si vede un’ombra di barba, adesso, anche sul volto del figlio.

Che notte, quella notte che è nato: nessuno se l’aspettava.

Erano soli, loro due. In casa. Le spinte l’hanno sorpresa che dormiva ancora. Suo marito è stato bravo. Si ricordava del corso in croce rossa, quando faceva il volontario la domenica mattina. Lo hanno partorito insieme, questo neonato frettoloso che ha visto la luce negli stracci, sul fondo madido della vasca da bagno. Un livido grosso, lei se lo ricorda bene, il rubinetto arrugginito conficcato dentro nella schiena. E la voce del marito che la accompagnava come in una passeggiata. Mano nella mano. Nessuno sarebbe morto. Nessuno. Gli infermieri la portarono via su una sedia, sporca di sangue, scendendo le scale a balzi vigorosi.

E adesso ha in casa un ragazzotto che divora una tagliata di chianina da ottocento grammi, con la voce cavernosa e sgraziata dei cigni appena provvisti di pomo d’Adamo. Gliel’ha appeso sulla maniglia della porta di casa, l’ombrello grande che sembra rubato da una grande spiaggia attrezzata. Non si sa mai, ha pensato, mentre toglieva il grembiule dai fianchi generosi. Se il diluvio lo sovrasta, a notte fonda, tra i vicoli e le piazze.

Magari torna qui. A prendere un aiuto, un riparo.

Per poi andare ancora sulla strada, ritrovare quel piacere che lo attende, quel futuro che comincia appena fuori dal portone.
Si è coricata da poco. E adesso sente un vociare sommesso, giù in cortile. Un suono buono, sovrastato dal rumore sferzante del temporale appena scoppiato. Suo marito dorme, uno di quei sonni profondi che arrivano al cuore bollente della terra. Si alza, lei. Scialle sulle spalle. Si affaccia alla finestra. Vede suo figlio e una ragazza bionda, capelli lisci di ninfa del lago. Sottile come un giunco. Resistente. Ridono, si abbracciano. Innamorati.

Che gioia dolorosa, mamma. Felicità e paura.

Certezza che sì, è accaduto davvero: è diventato grande. L’acqua cola dai loro capelli, l’acquazzone li ha colti sulla via. E adesso suo figlio prende l’ombrello, quello che lei ha appeso fuori dalla porta. Lo apre e attira la ragazza su di sé. Stanno lì. Sotto l’acqua e sotto l’ombrello. A baciarsi ancora e ancora. Nello sguardo bagnato di una madre che sorride.