I miei occhi stanno dentro occhiaie larghe, cerchi neri che sono strade, fossi indistinti. Le pupille accartocciate. Intorno si spande un’iride di mare sospeso, in ascolto. Il mento è largo, sorregge una bocca che piega verso destra, solo quando rido.
Come ha fatto, lui, a preferire me?
Come ha fatto, l’altra sera, a sfilarmi il vestito? A rovistarmi dentro il reggiseno?
E io, come ho fatto, io, a lasciarlo fare?
Non ci hai visto, amica. Ti chiamo ancora così, posso? Per quanto ancora?
Non riuscirò a non dirti nulla. Lui può, lo so. Perché lui è un maschio.
Così una mattina non saprò guardarti più.
Arriverà una colazione frettolosa alla stazione, il tuo solito cappuccio con il latte di soia. E lì, tra i lamenti cigolanti dei treni sui binari, ti dirò che un pomeriggio, in studio, ho fatto l’amore con tuo marito. Che non era amore. Che era follia. E non lo meritavi.
Ti chiederò di odiarmi. Almeno tu.
Avrò le mani calde. E io non ho mai le mani calde.
Finirà in quell’istante, veritiero e bagnato di pioggia greve, contro la finestra, la nostra storia di pomeriggi a studiare, di notti a fare l’alba, a ballare.
Avrai la faccia più bella che io abbia mai visto, sotto una coltre dimessa di cipria e di rassegnazione.
La tua risposta sarà una fucilata silenziosa.
“Tienilo”, mi dirai. Con un sorriso acuto e lieve.
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