La barca va.

Queste barchette sono il mezzo migliore per solcare i sette mari.

Le ho costruite con tutta la calma del mondo, appena me lo hanno permesso: sono uguali a quelle che facevo con mio fratello sul tavolaccio di legno di papà, in garage.

Le mettevamo sul fiume al tramonto ed era il pieno di giugno, stavamo nascosti nel bosco fitto dietro casa, le guardavamo andare, era giusto perderle.

Ci entravano i maggiolini amari nella bocca, stavamo in bilico sopra ginocchia nere e sbucciate, nei palmi stringevamo ancora poca paura della notte che scendeva.

Anna, l’infermiera bruttina con l’apparecchio acustico, lunedì scorso mi ha portato i gusci già pronti.

I dottori non mi hanno concesso le noci intere, da rompere, perché avevano il terrore che utilizzassi lo schiaccianoci per sentire male in qualche parte esplicita di me, per comprimermi le dita, o le labbra, o le pupille.

Non mi conoscono, i dottori: il male ho provato a farmelo una volta, ci ho rimesso una guancia perché mi è tremata la mano che reggeva la pistola, insomma di morire non mi è riuscito come avrei voluto e così ho perso tutto il rispetto di me, perfino la voglia di riprovarci, tanta è stata la delusione.

 Se mi guardate bene, però, potete vedere un pirata.

Uno che è contento di avere paura. Uno che le barchette le prepara con amore e rabbia e dolore, solo per lasciarle in secca.

Quando esco dal manicomio, scusate volevo dire dall’ospedale psichiatrico, mi riprendo tutto o almeno qualcosa: mi compro un barchino per stare sul lago. Starò attraccato a riva, a guardare gli aerei con i pattini che planano sul pelo dell’acqua, tra i cigni e le anatre. La cicatrice sulla guancia sarà il doppio del mio sorriso.

Un bambino mi vedrà da un parapetto vicino.

“Mamma, guarda quel signore!” lo sentirò e non vorrò sentirlo. “Perché sta lì fermo?”.

Sto fermo perché è così che deve andare. Devo lasciarmi vivere un pochino.

Per farmi trovare dalla vita, devo stare immobile. Altrimenti quella smette di cercare.