Il ritardo del treno.

Ancora un ritardo del treno.

L’ha annunciato l’altoparlante che gracchiava nella nebbia, alla stazione di Monza, Monza, stazione di Monza.

La voce è entrata nei colli di lana e di pelliccia, tra i palmi che tenevano gli schermi dei cellulari, sotto i tacchi consumati e nervosi. Settantacinque minuti che sono apparsi sul tabellone delle partenze, quello nero con le scritte arancioni, per un guasto della linea alla fermata di Camerlata.

Si arriva tardi, stasera, alle dieci almeno, hanno sbuffato tutti. Qualcuno ha fatto gesti di stizza, una piccola donna bionda, cappottino corto color kaki, ha detto a bassa voce “cazzo, non è possibile”. I telefoni hanno iniziato a suonare e a vibrare.

È partito il viavai dell’attesa: libri, riviste, cuffie, display accecanti.

Dita che tormentano le fedi. Sacchetti di plastica appoggiati a terra in mezzo ai polpacci, tra le poltroncine sudice dell’ingresso. Pendolari arrabbiati, pendolari accaniti. Gente che va di fretta. Quanta vita li aspetta, fuori dalla stazione, alla fine di quel viaggio dentro il vagone riscaldato da corpi e fiati.

Un uomo e una donna, facce stanche, scure, osservano il trambusto e la rassegnazione.

Erano già lì, loro: sono i barboni del posto.

Le ombre futili che nessuno vede.

A loro non importa di questo ritardo. Loro stanno fermi sempre, con la pelle unta e i pantaloni lisi, accasciati contro il muro vicino alla porta. Sorridono di questi umani sconvolti dall’imprevisto del destino, adirati contro il nodo che non tiene.

L’uomo lascia lì la donna e si alza, piano.

È scarno, asciutto anche con i fogli di giornale sotto il giubbotto, una gabbia nera con le tasche sfilacciate. Non è arrabbiato, è contento, sembra. L’arrabbiatura gli è passata tanto tempo fa, quando la sua vita ha iniziato a viaggiare in ritardo. Ora vede tutta questa gente furiosa, scocciata, polemica. Gli viene da ridere. Si mette al centro della sala e comincia a fischiettare, guardando tutti dentro gli occhi.

Qualche passo di danza.

Poi gira sempre più veloce, intonando un motivetto di Natale. Volteggia, ride, urla, gesticola. “Venite, venite alla mia festa!” dice. “Ballate, vi prego. Ballate con me!”. La gente si allontana, qualcuno finge di telefonare. Una donna si mette la mano sulla tempia e le esce dalle labbra una smorfia brutta, di commiserazione.

Pochi istanti e arriva il treno da Saronno, sul binario uno.

Un sospiro di sollievo, teso. Le formiche con pacchi e borsoni se ne vanno, si disperdono, così l’uomo con il giubbotto nero rimane solo. Nella sua grande sala da ballo.

A ballare contento per un treno che non viene.