Sono le foglie del parco, dove scivolo con le mie scarpe silenziose. Avanzo lento, cerco strisce di sole per scaldarmi le ossa, come un gatto che si acquatta dietro la ruota di una macchina appena parcheggiata.
Amo venire al parco, ho il mio posto. Mi siedo sulla panchina, ma non appoggio la schiena. Sto sul bordo, pronto a scappare. Lo faccio perché sono provvisorio e non so per quanto tempo posso stare tranquillo, prima che mi trovino. Questa mania della fuga ce l’ho da quando sono uscito dall’ospedale dei matti.
Lì se sei matto poco, diventi matto davvero.
Perché la follia è come un liquido, prende la forma dei contenitori dove si trova. Prende la forma dei cuori. Quando sono tornato a casa il mio papà mi ha abbracciato forte, si è alzato dal divano che quasi gli cedevano le gambe, è caduto sul pavimento un cuscino di velluto grigio con un alone di caffè, una macchia-pipistrello. Papà, muoio prima io di te. O forse no, perché di dolori non te ne voglio dare più.
Sei stato buono, con me.
Bello, adesso, arriva l’oro nella terra. Il sole scende dietro il Resegone e tutto si incendia. L’ora che amo, prima del tramonto. I bambini sono usciti dall’asilo e qualche mamma li porta qui, a fare le ultime corse prima della televisione. Sto sul bordo della mia panchina. Come corrono, come gridano, come ridono.
Come vivono, i bambini.
C’è Dio, lì. Aveva ragione, il prete dell’ospedale. Aveva ragione Gesù, a dire che il Signore è ovunque. Anche se non preghiamo. Perché Dio mi sa che sta anche volentieri negli occhi di un diavolo un po’ matto, che potrebbe odiare e invece ama.
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