“Non mi piacciono le scale. Per favore, andiamo via”.
La sua voce ammicca come occhi, quando guardano fissi dentro gli occhi. Il volto è ancora indecifrabile, coperto da uno strato spesso di fondotinta, tagliato appena da un sorriso di marmo. Normale. Le mani sono quelle che di solito stanno dentro i burattini. Brave, attente. Conoscono il copione. Prima stringono i gomiti, pazienti. Poi si abbracciano, dita incastrate tra le dita. Infine sono uccelli che planano nell’aria. Vicino ai capelli, alla bocca. Pesano, queste mani. Non sfiorano: sanno toccare anche da lontano. Entrano in contatto con l’epidermide attraverso gesti sospesi nell’aria. Accendono. Infondono un caldo cattivo, un ardore da sudare. Manca l’aria, qui sotto.
“Scendiamo, dai. Hai paura?”
Ti rassicuro, bellezza. Non succede niente. Cosa credi? Siamo soli nelle segrete del castello, sopra c’è la festa in maschera. Hai visto come ti guardavo? Adesso non mi vedrai più, perché la luce si farà a ogni passo un po’ più fioca. L’hai capito, no? Che io porto le persone qui. Perché in questa cantina che puzza di freddo e muri vecchi io capisco cosa prova la gente. Cosa pensano quei fantocci che ai buffet fanno tutti le stesse cose, e il tempo com’è, e mi passi quell’oliva, e ci sei già stato qui? Io l’amore lo voglio conoscere qui sotto, dove non c’è niente. Solo buio. E una luce lontana, che irride.
“Torniamo di sopra, porteranno la torta”.
Ecco. Quando iniziate ad avere paura, mi volete distrarre con il cibo. Quasi lo sapeste, che non mangio da tante ore. Anime dolci, è che io non mangio le torte: c’è il burro, c’è l’uovo, c’è il lievito. Io sono allergico a tutto. Alla carne no.
Mi fermo appena in fondo alla scala. Siamo arrivati. C’è un punto, di questa cantina, che è più buio del buio. Qui l’oscurità si fa presenza. Qui sento i miei peccati che mi parlano. Li abbiamo tutti. Parlano anche a te, ce la fai a capirli? A ricordarli? Adesso vedo il tuo volto, perché le mani hanno iniziato ad andare sulle guance, sulla bocca, e ti stai togliendo il fondotinta. La tua voce è a tratti tremula, a tratti dirompente. Non devi aver paura. Non ti allontanare, è che non vedi dove vai. Solo io conosco ogni centimetro di questo posto sotto il livello del mare. Lo conosco da sempre, perché da bambino io giocavo qui. Ero il re del castello.
Lo sapeva, lui, che io ero il re.
Per questo mi ha scelto, per questo ha voluto che lo aiutassi. Ci sono maghi ammalati, che hanno bisogno dei re per ritrovare la loro forza: io ho fatto del mio meglio, sai? Per farlo felice. Non mi ha fatto male. Non ci sono ferite che puoi vedere, non ancora.
“Andiamo, dai”.
Vuoi solo scappare, che peccato. Mi sembravi quella giusta, principessa. Ti ho visto che mi scrutavi, nella stanza illuminata, piena di pinguini e ballerine. E ho sentito quel legame, quel tuo caldo che mi squassa. Non mi deludere. Sei forte, tu. Sai perché? Tu mi ricordi lei, quella mattina, quando mi ha trovato in fondo alle scale, mi ha afferrato e trattenuto nella sua uniforme immacolata, armatura di guerriera. Gli occhi scuri come pietre di fiume. Pelle di sabbia tagliente. Audace. Continua a esserlo, ti prego. Non mi deludere.
“Ssssshhh”. Il mio dito sulla tua bocca. La mia mano sulla tua testa. Nibbio mio. Giù.
Ti spingo a terra. Cado con te. Ti abbraccio.
Mia.
Finalmente non parli più.
La cantilena mi esce dalle labbra, forte, così forte che non posso controllarla. La canzone. Quella delle notti con gli occhi sbarrati, delle camminate sulla tangenziale alle quattro di mattina, per sputare in faccia all’alba. Per dimenticare.
“Ho paura” ti dico nell’orecchio, tra le note strascicate della mia nenia amara.
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