Note speziate, aspre. Poi dolci, in quel modo che disgusta. Entrano nelle narici e restano.
L’odore dei piedi che non hanno calze, né scarpe. Quelli sfiniti e senza sosta, che portano in giro calli e tagli. Le vene in evidenza come autostrade livide, in mezzo a peli duri che sono rami di carpini in autunno. Poi arriva l’odore del sudore che esce da tutti i pori del corpo, dall’inguine anche, perché quando fuori c’è il vento gelido delle città del Nord, meglio coprirsi di mille strati e grondare dappertutto, piuttosto che finire congelati dietro a un foglio di cartone.
A Milano Porta Garibaldi c’è il binario 15, quello sotterraneo.
Nel tratto che precede l’entrata in stazione, poco prima della banchina, puoi trovare un dormitorio improvvisato. Se ti sporgi dal finestrino, più in là del tanfo di urina che ti colpisce in faccia, avvisti corpi infagottati sotto le coperte piene. Intorno fogli di giornale, latte, fazzoletti, bidoni, scampoli di stoffa stracciata e sporca. Teste senza corpi. Fantocci accartocciati nell’ombra.
Il passaggio, di solito, è veloce, perché il treno a quel punto si affretta dentro la stazione.
Così i passeggeri non vedono, non hanno il tempo di posare il loro sguardo fresco e austero su questa città parallela, fatta di individui sorci. Lumache nelle fogne. Ammasso informe di sconfitti, che la vita ha scordato su una rotaia arrugginita.
Oggi, però, è una giornata diversa.
Un pomeriggio di ottobre con l’aria che porta il freddo, fa pensare già all’inverno, nel collo e nelle mani. Il cambio dell’ora ha anticipato l’oscurità. E quel buio, fuori, è ostile.
Sono comoda nel mio sedile blu. Le tenebre del mondo fanno apparire un volto nel vetro: da un po’ di tempo non odio più la mia bocca. Mi riconosco, anzi, nella linea storta del naso. E gli occhi, larghi, sono belli, adesso, anche quando piangono. Fuori si susseguono case, prati, macchine, palazzi, tutti nel vortice del treno che passa. Anche io passo. Passo attraverso il mio nugolo di inutili problemi, i pensieri dei ricchi. La noia. Le malattie viscide dell’animo, che ti fanno vivere in parte. A pezzi.
Davanti ho qualche goccia di pioggia, che fa condensa.
All’improvviso un rumore aguzzo, un cigolio crescente, annuncia un rallentamento inatteso. Una fermata obbligata.
Qualche secondo e mi trovo lì, a fianco del dormitorio, a pochi centimetri dal regno dei perdenti. Allora ho il tempo di vedere. Di posare lo sguardo su questa città dannata.
Un attimo dopo ho un sussulto.
Mi colpisce una lattina in faccia, fa un suono sordo contro il vetro, la sola barriera che mi protegge dal male. Dal dolore no.
Me l’ha lanciata uno di loro, un essere della notte assiderata, un abitante degli stracci. Ultimo degli ultimi.
Lo guardo, lui mi guarda. Ha piedi scalzi e grossi, e labbra livide che si muovono nell’aria, una maledizione?
O una preghiera.
Mi fa segno, con le mani nere, di abbassare il finestrino.
Ho un terrore muto, perché potrebbe arrivare. Potrebbe prendermi. O lanciarmi un morbo, un anatema. Potrebbe uccidermi, questo lupo del binario, occhi di brace. O peggio: darmi il suo malanno, magari.
Invece capisco che vuole parlare. E basta.
Faccio come dice, dopo un po’. La domanda arriva naturale, come è naturale che lui sia qui, a lottare contro il gelo, e io sia qui, ad aver paura delle mie paure.
“Dove va, questo treno?”
Ecco, cosa vuole sapere. Solo questo, una cosa semplice come sopravvivere: dove va, questo treno. Perché non è ora, per lui, di finire. Non è ancora il tempo di crepare sul cemento duro. Magari anche lui, tra poco, salirà su questo treno. E andrà, ovunque si possa andare.
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