Fumata nera.

Mentre guido, mi cade l’occhio là.

Come faccia, un occhio, a cadere, questo non lo so. Cade e basta. Come cadono le braccia. O i pantaloni. O le ginocchia. Questo pomeriggio la mia pupilla sinistra è attratta da una visione lontana. Intensa. Ne sento l’odore, mi sale su per le narici, entra per restare, denso. Una nuvola di fumo nero, che si solleva da un capannone in mezzo alla campagna, ai lati della tangenziale.

Tutti gli altri fanno come me: osservano.

E il traffico rallenta. Tutti gli altri pensano come me: che tanto i soccorsi stanno già arrivando. E così magari non li ha chiamati nessuno, i pompieri. Li abbiamo lasciati tutti lì, a lucidare gli stivali tra i letti a castello, a fare ginnastica sul piazzale, a pulire le turche. A sonnecchiare davanti al telefono muto, accarezzando la testa del Retriever biondo della caserma, razza di compagno senza voce, guardia che non abbaia mai.

Intanto qui, al ciglio della strada, brucia qualcosa.

Una fabbrica, un impero, una vita. Una fumata nera, spumosa come gas puro di catrame, che mi fa pensare ai tavoloni di mogano dei cardinali in Conclave: non ci siamo, ancora non è il tempo di avere il Papa nuovo. Nessun padre buono ci sarà, alla guida di queste nostre vite, un poco stanche sempre. Allora mi sento alla deriva, avverto sottopelle una sensazione di abbandono.

Mio padre. Non c’è più. O meglio, lui c’è, ma sta dentro una scorza che si consuma ogni ora, una buccia secca che diventa amara man mano che perde acqua dalle cellule. Mio padre è come questo fumo: per quanto spesso, è una nebbia provvisoria, destinata a dissolversi. Mia madre non vuole crederci: adesso io lo so, invece. Che il male del cervello ha preso anche il suo corpo.

Ha iniziato quattro anni fa, quando ancora aveva un ventre fiero di mappamondo e teneva un pacchetto di Pall Mall dentro il taschino: passavano i giorni e si dimenticava i pezzi, finché ha sviluppato una memoria a intermittenza, buio-luce, buio-luce.

Flash di esistenza senza tempo.

Tutto sospeso e mescolato in una contemporaneità dolorosa, squilibrata. Un modo tutto al presente, quello dei bambini. Dei matti. Prima erano oggetti. Dopo persone. Dopo noi. Adesso quel colosso barbuto si è fatto crosta asciutta. Ho un padre soprammobile in una casa che puzza di flebo. Erminia sta con lui tutto il giorno, lo cambia, lo pulisce. Evita che la carne marcisca, che la morte avvenga prima di una tomba, di una terra soffice come una cuccia.

Mia madre la lascia fare, perché è impegnata a piangere, a rendersi conto che deve lasciarlo andare. Che adesso metterà via le sue ciabatte, le confezionerà con la carta velina bianco latte, dentro una scatola. Tra tutti gli oggetti di quest’uomo massiccio che collezionava ogni cosa, anche le carte luccicanti delle caramelle, terrà solo l’ultimo paio di ciabatte, perché ogni tanto vorrà sentirne il rumore, quello strusciare sommesso contro il cotto freddo del pavimento.

Penserà “Gino, alza i piedi. Alza i piedi!”.

Le sue labbra si muoveranno appena. Si aggrapperà alla certezza che adesso sì, ovunque la sua anima si trovi, lui la riconoscerà. E finalmente la chiamerà per nome.