Catene

Maglie pesanti e arrugginite. Sono arroccate in un monte sulla rena, un vulcano aguzzo che chiude lo sguardo, opprime il respiro. Metri e metri di catena, per rimanere, per non perdersi nei flutti, negli abissi senza pace.

Aspetto da due ore di imbarcarmi per pescare, ho deciso di provare.

Mi ha convinto l’amico che mi ha trascinato qui, nell’isola, per dirti addio senza morire. Ma adesso questo ammasso di ferro opaco, reso poroso e rossastro dalla mano dell’onda, mi è schiaffo. E specchio. Le solleverei con un dito, queste catene. Insieme all’ancora che si incaglia nella roccia viscida, sul fondo dubbioso del mare.

È perché sono arrabbiato. E offeso da tutto, anche da questa bellezza austera.

I pescatori ci fanno aspettare. Ieri sera siamo passati da qui, con le nostre Nikon nuove di zecca, a fare quattro foto stanche nel tramonto. Nella testa avevo i tuoi capelli sparsi dentro il mio cuscino, quelli che mi entrano in bocca se facciamo l’amore la mattina presto. Ti ho ricacciato indietro, come una maledizione, un tarlo invadente e contagioso. “La finisci?” Luca mi conosce, mi osserva. Vede quando passi nel mio cuore e fatico a cancellarti, a gettarti nella spazzatura.

Allora ha cominciato a parlare, nel suo greco mezzo inglese, a un pescatore che tirava la sua barca a riva, due sconosciuti in silhouette, nell’arancio luccicante del sole che muore. Eccoli che dissertavano del tempo, del mare.

Di me, del mio amore fallito e deluso.

Qualche istante dopo e avevamo appuntamento per questa mattina, all’alba. Per uscire a pescare, perché non c’è sirena che un mare selvaggio e brullo non possa far dimenticare. Non volevo venire. Adesso vorrei solo prendere queste catene, avvolgerle strette al mio collo rugoso di tacchino solitario. E scendere in fondo, metro dopo metro, incontrare il blu delle cave di terra sotto l’acqua salata. Confondermi nel buio di un relitto ricoperto di muffe e alghe.

I pescatori arrivano. Il mio amico mi sorride. Si va.

Il moto dell’onda è ninna nanna. Qualcuno canta una canzone a bassa voce, come una nenia. Una cantilena che placa il dolore, un canto carnatico che solleva dalle doglie di un parto frettoloso.

L’immagine di te è sfumata tra gli schizzi che arrivano dal motore. Il sole sorge e mi scalda la pelle dell’avambraccio, dove ho tatuato il tuo nome. Ancora per poco. Non mi volto a guardare la riva che si allontana, guardo davanti a me, le nuvole rarefatta sulla superficie del mare. Qualche gabbiano indurito dal sole, che vaga cercando una briciola di pane. Cos’è l’amore che finisce, se non questo istante in cui forse si torna a respirare? Si smette di amare qualcuno e si comincia ad amare noi?

Non voglio domande, per un po’.

Devo cambiare il mio futuro e devo farlo adesso, ballando sopra a questa bagnarola fiacca. Luca si siede accanto a me. Ouzo alle otto di mattina. Ridiamo, sì. Ridiamo.