I castelli di sabbia.

Sofia si muove con passi dubbiosi, che si fanno rapidi e decisi soltanto nella sabbia bollente, per sfuggire alla morsa del caldo sulla pianta, quella che punge e brucia. Ha piedi piccoli, leggeri, abituati al passeggino e al carrello del supermercato.

Sofia, al mare, non voleva venire.

Non voleva stare in mezzo alla folla sudata del mezzogiorno, tra gli odori dolciastri di creme solari e le voci moleste delle radio da spiaggia. Lei stava bene vicino al suo bosco tranquillo, a cercare bacche di gelso e legnetti sottili come aeroplani senza ali. Però la mamma ha voluto così: ha detto che Sofia aveva bisogno di cambiare aria. Di entrare nell’aria del mare. Un’aria che a Sofia pare appiccicosa, opprimente come sbarre senza forma né volume. Un’aria che schiaccia i polmoni, perché è fatta di risate necessarie, di gioie dovute.

E cosa importa a lei, di quattro alghe brune sul bordo del mare, quando possiede metri di felci delicate sulle rive del suo fiume? In questo istante le mancano i sassi da buttare. La speranza di intravedere un padre solitario tra le fronde, grande e forte come una quercia di montagna.

Sofia non ascolta. I rumori, i suoni, le parole.

Non ascolta la maestra, la catechista, Don Vincenzo, sua madre e sua nonna. E adesso che è all’Hotel Corallo per le vacanze estive non ascolta nemmeno i camerieri, non le donne delle pulizie, non i bagnini e non gli animatori del Bagno Anna 162. Ascolta solo la voce che ha dentro. È la voce di un uomo, non sa bene di chi. Ma l’ha impressa nelle orecchie da sempre. Forse le ha scavato dentro, questa voce. È penetrata nella pancia, in fondo. Dove Sofia va a rifugiarsi quando fuori è tutto troppo. Questo suo non ascoltare il mondo fuori si vede dal viso smarrito, impassibile.

Vive distante, Sofia.

Nulla la scalfisce, niente la trapassa. Ovattata in uno spazio siderale, silenzio senza fine che gorgoglia, come se avesse sempre l’acqua nelle orecchie e gli unici suoni udibili fossero i crampi di uno stomaco vuoto, esigente. Qualcuno ha azzardato la parola “autismo”, al mercato, quando ha visto passare madre e figlia alla ricerca di un paio di pantaloncini da niente per il mare.

Ora puoi vederla che gioca da sola con la sabbia. Indossa il costumino arancione, a balze gentili, che la nonna le ha comprato al centro commerciale il giorno prima della partenza: la nonna da anni vive con lei e la mamma. La nonna insegna alla mamma come si deve fare, per fare la mamma. Lo fa anche in vacanza, davanti a tutti. Rimprovera spesso questa mamma-bambina con gli occhi lacrimosi e uno sbuffo rassegnato sulle labbra imbronciate. Le dice “Faccio io, lascia stare”. E la allontana da Sofia con il braccio destro, teso. Nel frattempo si esibisce in un sorriso austero, come un’anziana civetta che osserva tutto quello che non va, abbarbicata alla credenza ammuffita del soggiorno. Così lei giudica. E condanna.

A Sofia dispiace per la mamma.

È un essere buono, con i ricci tenuti in forma dalla spuma, i fianchi larghi e generosi, le guance lucide. Le labbra sempre avvolte da uno strato di rossetto rosa chiaro, che Sofia si mette di nascosto, certe mattine in cui si sveglia presto e le altre dormono ancora. Chissà se al papà piacevano, i baci rosa della mamma. Allora, quando fuori è ancora notte, fa finta di dare un bacio rosa al suo papà: avvicina il dorso della mano alle labbra colorate di fresco e schiocca uno smack sonoro, felice. Un bacio con gli occhi chiusi. “Ti voglio bene, papà”. Poi spalanca le pupille profonde, un po’ salate, e questa assenza le appare così: un velo di rossetto rosa sulla mano.

Un bacio mai dato. Un bacio che è un sogno, un’idea.

La voce in questi casi dice grazie, Sofia la sente bene. È tremula, un soffio: che voce preziosa, grande e grossa e si commuove. Oggi pomeriggio Sofia ha voglia di sabbia, per la prima volta dopo cinque giorni di vacanza: sarà che tra poco si torna ai monti. Si torna a casa. Così rimane seduta a terra, vicina alla brandina, affonda le mani nella rena profonda, umida: riempie formine e secchiello, fa un lavoro meticoloso, lontana da tutti, dentro se stessa.

Prepara un castello. Una dimora dove stare, con uno specchio grande.

Un letto enorme, doppio o forse triplo, dove farsi le coccole tutte le mattine. Un tavolo per le cene con papà. Non mette la televisione: il volume è sempre alto, copre tutti gli altri suoni. Vede Baldo, il suo orso grande di peluche: appoggiato a una mensola in attesa di un gioco, di una mano gentile. Di uno sguardo leggero e docile. La mamma e la nonna sono serene, la ammirano pacata, che inventa le sue storie di sabbia. Vacanza vera, da pochi minuti. Speriamo per ore.

Il fatto avviene in una frazione di secondo. Un piede pesante, una pianta arrogante e distratta si posa con vigore sul castello che Sofia ha appena costruito: si disfa tutto.

È un crollo istantaneo, rovinoso.

La bimba reagisce come non aveva mai fatto prima: urla. Scalpita. Tira calci e pugni all’aria. Lacrime spesse come grandine inondano la spiaggia, i braccioli, i giochi, tutto. Nella testa un tripudio di rumori, una sonata confusa e violenta che atterrisce, disorienta: suoni acuti, striduli. Poi grevi, dalle infinite sfumature: una sinfonia invasiva, il mondo fuori che entra violento e spazza via la voce interiore. Per questo Sofia si dispera e odia anche l’aria che respira: dove è finita quella voce? Dove è andata? È scomparsa con il castello, è lì sotto, tra le macerie salmastre e cocenti. La nonna si alza, autoritaria, fa per cacciare mamma. Ma questa volta no. Nel trambusto della crisi, nel pieno del terremoto dei suoni, la mamma agisce per prima: ferma la faccia di Sofia, le copre le orecchie con le mani.

Le dice “Sono qui”.

La bambina si blocca di colpo. Di nuovo è distante dall’esistenza che si muove, ritrova quella calma che è isolamento, barriera protettiva. C’è una sola cosa diversa da prima: Sofia non sente più la voce dentro. Adesso sente subito la voce della mamma. È una voce che  canta. Una melodia a voce sussurrata, forte di una forza che sovrasta tutto il resto.

Partitura che abbraccia. E difende.

La mamma si siede sulla sabbia, tiene Sofia sulle cosce. Intreccia le mani sul suo piccolo cuore pulsante, cardellino intrappolato in una gabbia. Le accarezza i capelli neri e sudati. Prende una paletta e inizia a riempire il secchiello. “La rifacciamo, Sofia. La tua casa la rifacciamo insieme. Vuoi?”. Per la prima volta la bambina risponde subito. Dice sì. Ha sentito forte e chiara la voce tonda della mamma. Accenna un sorriso bagnato.

Guardale. La nonna ha capito tutto: ora sua figlia fa la mamma, non poteva farlo in modo migliore. Sulla spiaggia, lontane dai clamori delle ferie, ci sono due donne con un velo di rossetto, che si scambiano baci rosa.

E insieme ricostruiscono l’unica dimora che non smetteranno mai di abitare.