No. Aspetta. Non mi abbandonare adesso. Cuore, non lo fare. Mi dondolo seduta sul lettone, guardo mio figlio. Il respiro che emana dalle labbra tremule. Le palpebre in leggero movimento. Cosa vedi, amore? I giochi, vedi. Lo scivolo e l’altalena. Vedi il cagnolino a cui tiravi quel bastone.
Ho un dolore sospetto da un paio d’ore.
Non dovrei avere dubbi. Lo so. Lo conosco. “Non aspetti, signorina. Alla prima avvisaglia di oppressione, venga in ospedale”. Ho trentaquattro anni e il cuore di una vecchia zia con l’apparecchio acustico e la dentiera. Stasera, però, non vado in ospedale. Questa sera non la posso rovinare.
Questa sera non posso morire.
Luca ha voluto andare via. E ha fatto bene. Non è molto che ho deciso di presentarlo a mio figlio. E questa è stata la domenica del tre, che è il numero perfetto, ora ne sono certa. Tre pizze, tre coni da tre gusti. Tre corse con Black attorno alla pista di pattinaggio. Tre abbracci grandi. A tre. Dopo anni di due, questi son giorni di tre.
E non credevo alle mie orecchie, quando mio figlio mi ha detto: “Mamma, Luca può restare a mangiare con noi questa sera? Posso guardare gli Avengers con lui?”. Poi si è addormentato, la faccia serena, distesa per un amico nuovo, grande, un barlume di paternità invocata.
E con Luca, dopo, non ho neanche fatto l’amore. L’avevo fatto già, mentre lavavo i piatti e li guardavo avvicinarsi sul divano, a litigarsi per scherzo un centimetro di plaid. Lo capisci, cuore? Lo vedi, adesso, perché non puoi mollare? Perché non devi fermarti, ora. Devi andare. Devi berti questa vita, devi battere per questo amore.
Tu tum tu tum tu tum. Ho dolore. Dovrei chiamare un’ambulanza. Prendo la mano di mio figlio. Lui si gira piano.
Non bloccarti, cuore. Non frenare.
La mattina dopo mi sveglia la mano del mio bimbo in faccia. Sono vestita, sopra le coperte. Sono viva. Afferro il telefono. Un messaggio. È Luca. “Buongiorno, amore. Grazie per ieri. Ti amo”. Cuore. Batti giusto, allora. Batti come devi fare.
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