A Como, sulla passeggiata che conduce a Villa Olmo, regno di folaghe aggraziate e stranieri dai capelli chiarissimi. Qualche sera fa ti ho raccontato che mi piace il lago, quella sua malinconia di abisso scuro che cattura. Un tocco che ammalia e fa intristire il cuore, ma di una tristezza che fa andare avanti, se guardi i monti in fondo, giganti fieri sulla sponda dell’altra parte.
Nel lago vengono tutti. A rinfrescarsi, a scattare fotografie, a prendere una barca, a scrutare le carpe dei fondali.
Nel lago tutti lasciano qualcosa di cui vogliono disfarsi, un peso, un segreto.
Un’ombra da strappare a un corpo stanco. Il lago è nostalgia dei nostri errori passati. E certezza di quelli futuri.
A te non dico nulla. Non ti parlo della barca di mio padre, dell’odore dolciastro che scende nello stomaco. Dei cavedani cattivi. Delle rive dai sassi appuntiti. Mi fai sedere tra i gradini di una scaletta di pietra, che si immerge nell’acqua verde e stagnante, carica di aghi di pino, legnetti, qualche tappo bianco di bottiglia.
Quanti mesi sono che mi ami senza toccarmi? Luca cosa dice?
Stavo tornando a casa, quando ti ha portato al nostro tavolo. “Serena, questo è Giorgio”. Giorgio con gli occhi buoni. Giorgio che non giudica e non parla. Attracco sicuro di lago grosso, dopo una malefica tempesta. Mi hai accompagnata a casa e ti tremavano le labbra. Sugli avambracci un filo di pelle d’oca.
E sono belli, i tuoi avambracci: sono quelli che ti tirano su dall’acqua quando non c’è nulla da afferrare. E dopo viene tutto il corpo. Pupille grandi, che cercano qualcosa. Sempre. Mani forti, ammasso di carne e ossa per rendere felici.
Sei perfetto, Giorgio. E chissà perché ti innamori di me, che sono una perdita di tempo.
Non puoi salvarmi, neanche qui. Nello scalino ricoperto di muffa verde, traditrice. Quel tranello che si infila sotto il piede e ti trascina giù, nel ventre della notte piena. Acqua densa e oscena, che fa smettere di respirare. Tu mi parli di quel film. Ti ascolto. E poi del libro. Di quell’applicazione sul cellulare.
Mi parli di tua madre. Del suo cappello che è volato nel centro del lago, a Sirmione, quando tu e tuo fratello eravate bambini. E un pescatore sulla sua barca lo ha recuperato, consegnandolo a tua madre intriso di odore ripugnante, perché lo aveva appoggiato sulle reti delle anguille furbe, scivolose. Lo avete lasciato lì, il cappello. Perché ormai apparteneva al lago, come le foglie spesse delle magnolie, le ortensie azzurre che galleggiano tra le increspature lievi.
Lasciami qui, Giorgio.
Non li guardo, gli stranieri. Cercherò angoletti solitari, nodi nel filo del tempo. Invecchierò con questa brezza che sembra gentile. E invece ti consuma. Non mi toccare, non ancora. Non deve sanguinare, il tuo cuore. Adesso siamo troppo vicini.
E un bacio è sospeso nello spazio tra le nostre labbra, perché hai trovato il coraggio.
Il sussurro gentile di un fiato di casa, di pantofole e divano.
Mi alzo, veloce. Impaurita e cattiva. “Guarda, un idrovolante!”. Il lago ride, ora.
Andiamo via ancora una volta, dai. Come due metà che non si possono incontrare mai.
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