L’hanno inventata quelli delle poste, quelli dei comuni. Adesso c’è anche nella sala d’attesa del mio dottore, poco distante dal banco degli appuntamenti.
Che peccato, stare lontano dalla gente. E dover tendere l’orecchio così, per sentire quelle voci. Mi piacciono tanto, le voci delle persone.
Ora, per esempio, c’è una ragazzina con gli occhi bistrati che balbetta e fissa gli appuntamenti sul calendario del cellulare, non vuole bigliettini in giro. La mandano quelli dei servizi sociali, perché la mamma penso proprio che si droga ancora e lei si consola con il fuoco, quando è sola, la sera. Di solito viene anche un signore grasso con i baffi grigi, che ha una pancia come un mappamondo. Puzza un pochino, questo signore. Ha un sudore che marchia gli ambienti, che capisci subito che lui c’è stato.
Un sigillo odoroso che vuole dire esistenza. Passaggio.
C’è anche una donna magra, con le costole che sporgono dalla maglietta. Un giorno mi son messo lì e le contavo tutte, queste ossa. Poi l’ho immaginata cadere, come cadono i bastoncini di shangai, ulna, radio, femori e calcagni a disporsi in un mucchietto ardito, come vogliono, a bucare il pavimento con vigore. E poi il bastardino a pelo raso, che salta ai piedi del padrone, che noioso. Un ragazzo con la barba sfatta, le gambe sudate, appiccicose. Ogni tanto parlotta tra sé.
Che bello, stare qui. Insieme a tutte le persone. Pazienti del mio dottore.
Pazienti perché hanno tanta pazienza. Con la vita.
Con i malanni, con i problemi, con le paure. Pazienti perché patiscono. Un po’ di solitudine, come me. Ho preso il bigliettino e forse adesso tocca a me, la coda è finita. Cosa volevo dire? Niente, va. Non lo prendo ancora, questo appuntamento: tanto io sto bene sempre.
Vengo qui perché mi piace, non perché sono malato.
Vengo qui perché così non muoio, anzi. Mi basta vedere gli altri naufraghi di questa barca, tutti dietro a quella riga gialla.
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