Volevo venire qui. Dove i fichi d’india invadono le strade. E l’odore d’estate è quello degli agrumeti carichi di limoni dalla pelle grossa. Dove le strade sono asfaltate male. E gli ambulanti vendono granite alla mandorla e meloni gialli.
Sono arrivata sola. Non l’ho detto a nessuno.
Ho smesso di scrivere una sera che le parole stavano dentro. Non volevano uscire più. Una notte che la stanchezza mi teneva la bocca serrata, il cuore raggomitolato. Era tempo di andare. Sull’isola parlo poco. Mi accarezza il vento. Il cielo tiene dentro strati di nubi e azzurro che spaccano la vista.
Le onde sono delicate, perché questo è un mare buono. Che cura.
Ho chiamato Iano mentre stavo in aeroporto, decidevo volo e alloggio. La solita villetta sul mare. Il mio ritiro. C’è una cosa, di questa villetta, che mi resta dentro quando sono lontana. E tutto il corpo si strugge a quel pensiero. C’è una strada bianca, solitaria. Una via silenziosa che si adagia tra cancelli bianchi e fichi e cardi.
È una strada che finisce con il mare.
È come un fiume, questa strada.
Raccoglie ciò che trova e lo porta in un abbraccio ondoso, blu profondo. Oggi ha trovato me, che mi lascio trasportare. Che mi lascio vivere. Cammino lentamente, perché i ritmi sono lenti, qui. È il vento caldo che detta il tempo. Gli uomini non comandano niente, in questa terra brulla. La percorro passo dopo passo. Ed è il tramonto. Il sole si inabissa nel mare, non si boccheggia più. Le cose e i volti hanno addosso un riverbero caldo, una punta di arancione triste. Sono così assorta nella mia sensazione.
E lo vedo in ritardo, con la coda dell’occhio destro.
Un cane grosso, che digrigna i denti, corre verso di me. Marrone, orecchie piccole. Una corda sfilacciata attorno al collo bovino. Mi blocco. So che mi attaccherà. E questa strada diventerà rossa. La sabbia sarà sporca del mio sangue fino al mare. È una frazione di secondo. Tra me e il cane infuriato si para un uomo in bicicletta, un ragazzo altissimo, pelle quasi nera, maglietta del Brasile. Frenata sfrigolante sui sassi aguzzi. Oooohhh, dice al cane. Lo dice con un tono autoritario, sicuro, rotondo. Un piglio che lo fa fermare, denti scoperti, ringhio di sfida. Dopo pochi istanti il padrone dell’animale ci raggiunge da dietro un cancelletto aperto, il varco da cui la bestia è uscita fuori. Mi scusassero. Nuova corda, percossa con mano di piombo, cane trascinato via. Ora posso muovermi, la lingua si scioglie. Ringrazio il salvatore nero su due ruote, ma non mi risponde nemmeno. È già una sagoma che si allontana, verso la campagna arida, ancora assolata. Io allora riprendo a camminare.
Dentro ho il cane. E il padrone del cane. Non so chi sia la bestia.
So che sono stata fortunata, nella mia strada verso il mare. Perché non tutti quelli che nella vita camminano da soli incontrano uno che li salva da una belva, anzi due. Uno che non devi nemmeno ringraziare. Adesso scendo in spiaggia. Sono ancora in tempo per vedere il sole che muore. Nel mare.
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