Mi domando quanto durerà, questo mio piede nella sabbia ruvida in riva al mare.
Ho lasciato le ultime impronte questa sera, quando l’arancione tiepido del sole mi premeva sulla schiena, mi spingeva ad avanzare. Allora lo facevo. Anche se era tardi, anche se gli schizzi della spuma briosa e fresca mi lambivano le guance.
Lontano, all’orizzonte, un caseggiato giallo. Abbandonato. Due sacchetti di plastica e un gabbiano dalle zampe enormi. E una coppia avvolta e stretta in un telo rosso, due ragazzi che si tenevano come si deve, approdo mani nelle mani.
I miei piedi sono pesanti. Perché pesante è il passo di chi non vuol rientrare al porto.
Di questo viaggio, che è soprattutto un viaggio dell’anima, rimangono i ricordi: a modo loro e al loro tempo saranno dolci. Ma stasera fanno quasi sanguinare. La rivolta contro i gesti insulsi di ogni giorno, e il normale che preme per tornare, diventa morsa alla gola, qui, davanti alla voce del fratello mare.
Allora voi cancellate le mie orme, onde. Cancellate, se potete, anche i miei piedi.
Regalatemi una pinna grande, fatemi sirena.
Sulla terra io non voglio stare, mare. Lasciati amare come voglio io, dalle viscere dove nascono i flutti più corposi. Dagli anfratti dove non si muore. Dove vado a proteggermi, ad abitare.
Una lacrima. Il vento la cattura, è sale bagnato. La butta lì, nella risacca stanca.
Ora lo so.
Tornerò, c’è sempre un modo per tornare.
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