L’ombra sulla lapide.

Non sempre riesco tutti i giorni. Certe volte vengo solo una volta alla settimana. Porto le gerbere, che durano tanto e hanno bellissimi colori accesi.

Da quando l’hanno sepolta qui, la mia mamma.

Non mi ha terrorizzato la bara che andava giù, nel ventre della terra grassa. Non mi ha terrorizzato la trama grigia e rosa del marmo poroso, che teneva schiacciata la cassa. Una cosa sola, giorni e giorni dopo, mi ha ferito davvero: un pomeriggio tardi sono arrivata che ero stanca. E sola. E non ho trovato più il foglio provvisorio, con l’immagine incollata e il nome scritto in word, mercé delle intemperie, dell’erosione degli istanti.
Allora ho trovato la lapide definitiva. I marmisti erano passati la mattina prima, a finire il lavoro, ad applicare nome, data di nascita e data di morte, per sempre. Lo strappo l’ho sentito bene aperto, ancora. Un fiotto di sangue mi è venuto fuori dagli occhi.

Come se fosse morta, davvero, solo in quel momento.

Quel vuoto ineluttabile, quella partenza senza ritorno. Con il foglio provvisorio, invece, mi pareva che sarebbe arrivata di nuovo, un giorno. Mi sembrava solo un carnevale di cattivo gusto, uno scherzo macabro, un tiro sinistro, un po’ cattivo.

Quel tardo pomeriggio diventava tutto reale. Allora, solo allora l’ho capito: la morte era lì. Vera. E quel volto che mi fissava dalla fotografia era pietra. Nient’altro che pietra immobile. Fredda. Inutile.

Otto mesi non sono tanti. Ho quasi smaltito tutto: i vestiti li ho dati alla povera gente, come la chiamava mia madre. Come se noi fossimo ricchi. I mobili sto provando a venderli. Ma so già che nessuno li vorrà e allora li butterò in discarica, tranne lo scrittoio di papà. Che mamma spolverava come un crocefisso d’oro massiccio.

Quel viso che mi guarda adesso è roccia, è attimo sospeso nel tempo.

Mi riporta alla mente l’espressione dolente di quando l’ho trovata morta. Non pareva dormisse, no. Pareva urlasse. La morte deve averle fatto paura. La morte non era un sonno pacificatore. Mia madre non voleva morire. Mia madre aveva la paura negli occhi velati, lacrimosi, nei denti sporgenti, nelle gengive esposte.

Mia madre l’avrebbe uccisa, la morte. Se avesse potuto.

Ho pianto poco. Ma adesso un po’ mi viene, mi sento pungere le palpebre inferiori. Come un moscerino insistente, che mi ricorda il pasticcio dei pensieri dentro la mia testa. Ricordi, rimpianti, parole. Piatti di pasta al sugo, mani calde e ruvide nella notte nera. E’ quasi ora che vada, l’acqua nel vaso c’è. Speriamo che non piova, altrimenti queste grosse margherite si rovineranno presto. Un segno della croce e vado via.

La mia ombra sulla lapide le farà compagnia.

Sono la tua ombra, mamma. Vicino ai tuoi fiori.
Cammino nel mondo che mi hai donato tu. Ma la mia ombra te la lascio qui, a me non serve. Lascia che ti protegga, che ti ripari. È per te, che amavi il fresco e il sole forte non ti piaceva neanche un po’. Non mi arrabbio, mamma. Non mi arrabbio più.

Mi ricordo, quello che dicevi. Quando urlavo, adolescente adirata contro l’universo intero, mi guardavi e sorridevi. Mi irritavi così tanto. Serafica e leggera. E mi dicevi: “Non ti arrabbiare. Abbiamo due giorni per campare”.

La vita è breve, mamma. Hai ragione, dura due giorni.

Però tu potevi campare qualche giorno in più. Per me. E per te. E io ti giuro che non mi arrabbiavo più.