La scia bianca dell’aereo.

Qualcuno mi ama! Qualcuno mi pensa!

Lo dicevamo da bambine, quando in cielo vedevamo passare uno di quegli aerei piccoli piccoli, lontani, che tracciano una scia densa e spumosa, un tratteggio bianco di gessetto su un fondo azzurro di lavagna. Il mio cuore, non la mente, allora, si metteva a pensare. Al viaggio di quei passeggeri alati. Alla meta. All’esistenza nuova che li attendeva all’atterraggio. Alla vertigine di libertà, durante la traversata oltre le nubi, su, sempre più in alto, a sovrastare la terra.

Lo sguardo rimaneva sospeso.

E ciascuna di noi si proiettava là, in quell’abitacolo dalle mille possibilità, in quel regno di opportunità. Un’ascesa che era una conquista, la cancellazione di un errore non nostro.
Le suore poi ci richiamavano. E facevamo i letti. La preghiera. La tavola.

Mi sono alzata dal letto perché avevo schifo. Odio quando i clienti si addormentano. Non lo devono fare.

Un uomo, se non è tuo, non deve dormirti al fianco.

Non se ti ha appena leccata con un fiato d’aglio che ammazzerebbe anche un vampiro. Anche me.
Mi affaccio alla ringhiera ed è già l’imbrunire. Il cielo non è più azzurro, ma è pesante di un’aria spessa, che anticipa il tramonto. Ha fatto umido, oggi. Passa un piccolo aereo bianco. Con la sua scia bianca. Non sono più in alto, con lui: resto in basso, adesso. È la mente. La mente sa che non c’è possibilità là sopra. Come qua, su questo straccetto di terra stanca.
Studio volentieri. Lettere moderne, voglio insegnare i libri al mondo. Ai giovani come me. Ho voluto una casetta tutta mia, perché mi servono i miei spazi. Mi mantengo da sola, con l’aiuto di alcuni signori che hanno bisogno di farsi accarezzare da una mano fidata, che conoscono. Ma poco.

Questa qui sarà un’estate triste. E io forse sarò un pochino più triste di lei.

Ma uscirò sulla ringhiera, vicino al gelsomino. Chiuderò i lembi della mia vestaglia nera, perché ci vuole pudore, sempre.

E aspetterò. Un uomo. Un aereo.

O la notte. La notte soltanto.