Dietro i miei occhiali.

La cioccolata è bollente. L’ho presa al gusto cocco e gianduia, mi fa pensare a luoghi lontani. Io in vacanza vado solo in Valtellina, con i miei che hanno la casa. Ma una volta mi piacerebbe andare a un mare di quelli caldi, con la sabbia bianca, quelli dei reality della televisione e dei blog dei viaggi fai da te.

Da piccola ero grossa.

Qualche compagno di classe, bello e cattivo, mi chiamava cicciona, io dicevo “ho le ossa grandi, sono  robusta, io”.

Invece a lui piacevo così. Imponente e occhialuta. Nessuno mi aveva mai guardato come mi guardava lui, mi prendeva la mano e mi portava via dalla routine: io ho paura dei cambiamenti, odio i contrattempi. Io sono tranquilla, nel mio pezzo di vita incasellato dentro un file excel. Analizzo i dati. E tutta la realtà, in fondo, è un dato da analizzare.

Lui no. Lui usciva da queste celle formattate, tutte uguali.

Non lavorava, non guidava, mangiava pochissimo. Aveva una famiglia con otto fratelli, in società, a mandare avanti una carrozzeria ereditata in Viale Monza. L’ho capito subito che aveva un mestiere particolare, era silenzioso e solitario. Erba, fumo, pasticche in ogni tasca, nel doppio fondo di ogni zaino, di ogni borsa.

Una notte, in albergo, voleva farmela provare. Una pastiglia rosa, che sembrava il moment di quando hai le tue cose. No, dai. Io ho paura. Io sono venuta fino a qui con tre mezzi differenti, la prima volta abbiamo dormito su un materasso umido, gettato a terra tra i mozziconi. E sentivo gli sguardi di chi mi vede percorrere sempre la stessa strada, il terrore di quella domanda: “Non è da te cambiare direzione, ma dove vai?”. Ho silenziato anche Whatsapp, perché mia mamma mi manda almeno una faccina due o tre volte all’ora. Il telefono nella Terra senza Numeri non prendeva mai.

È durata sei mesi, la mia follia.

Lui mi attirava come un nuovo centro di gravità, due valori complementari, io che mi arrendevo alle sigarette e alle lenzuola usate nelle camere d’albergo, lui che diventava puntuale.

Ti amo, però, non me lo ha detto mai.

Poi un mattino mi arriva un messaggio in segreteria. Parole sommesse, si sente il rumore di macchine e sirene. “Mi hanno preso. Non so se mi mettono dentro, ci sono già stato e non te l’ho mai detto. Lo distruggo, adesso, questo telefono, non lo devono identificare. Stai attenta e non mi richiamare”. E poi, la conclusione, per farsi odiare: “Meglio così, io ti ho tradito. Non una volta, sempre”. Clic.

Un fulmine, un turbine, un maremoto. No. Silenzio.

Entro nel bagno del bar, quello dove noi ci incontravamo, dove ha iniziato a chiedermi di uscire e dove gli ho detto, per la prima volta: “Non ti preoccupare, pago io”.

Mi guardo e rivedo i miei numeri, quei numeri che sono io: due occhi, due sopracciglia, due lenti, un naso, due guance, una bocca e trentadue denti. Una parentesi impazzita, una graffa incontrollata. Un baco assurdo del sistema.

Finito. Sono ancora qui.

Adesso sono trascorsi tre mesi, sono al bar con una mia collega, beviamo la solita cioccolata. Io ho la borsa di sempre in mezzo ai piedi, equidistante tra le gambe della sedia. “Non dobbiamo arrenderci, Sonia” se ne esce lei. “Il principe azzurro è lì fuori, per noi. Dobbiamo solo saperlo riconoscere e guardare!”.

Alzo le spalle, poi il sopracciglio destro. “Io sono una talpa. Ho gli occhiali da quando avevo quattro anni. Spero solo che mi veda lui!”.

Ridiamo. Io nel mio solito modo, quattro risate a intervalli regolari.

Sono le sei. Il copione ora prevede di andare.