La luce delle fate.

La guida è brava, parla bene: una ragazza vestita da folletto, con un cappottino verde sottobosco, di velluto. In stile fantasy. Ha le orecchie lunghe, di gomma, con le punte posticce da elfo. Al collo un bel ciondolo d’argento a forma di foglia di edera. La pelle è diafana, la voce cristallina. Uno spiritello vivace, sempre giovane.  

Ho portato Lucilla alla Mostra delle Fate. Faccio così, una volta alla settimana: dopo giorni di corsi speciali, classi dedicate e giochi su misura, la porto dove qualsiasi mamma porterebbe il suo bambino.

Come se io fossi una mamma qualunque. E lei una qualunque bambina di otto anni.

Lucilla invece ha la sindrome di Down. I dottori, le maestre, le panettiere e le blogger la chiamano speciale: e si impegnano tutti a dimostrare che lei è molto più di una bambina normale. Io, invece, ho solo bisogno che sia lei. E che sia una delle tante. Come me, che sono una mamma moltitudine di errori, una mamma montagna di illusioni: non la madre forte della bambina handicappata. “Poverina, eh. Però dai: quanto amore hanno da dare questi bimbi? Più di quelli normali. Da un certo punto di vista è anche un privilegio. Che dolci che sono, con i loro sorrisi, le carezze pesanti, gli occhietti piccoli e strabici”. Che bellezza, che fortuna. Quanto abbiamo da imparare.

Sono la mamma speciale di una cucciola speciale.

Sì. Parlare di un bambino disabile è come parlare di un cagnolino che dimena una coda a moncherino. Quei carlini tanto sgraziati e fuori luogo, che fanno colore, che fanno tenerezza, al guinzaglio di un padrone che attraversa la strada. E ci incrocia da lontano. Allora sì che la sindrome è stupenda: ti fa crescere, ti distingue. Che eroina. Che coraggio.

Brave, belle, buone. Mamma e bimba, sì.

“Posso farvi una fotografia?” Al mare, l’anno scorso. “Siete dolcissime!”. Certo. Ma le noccioline? Dobbiamo ballare? Tanto c’è la gabbia, tranquillo. E comunque non mordiamo.

Adesso Lucilla è qui davanti a me. L’ho spinta dolcemente verso la piccola frotta di bambini radunati attorno alla guida elfica, che parla di misteri da scovare nei boschi: oro degli gnomi, polvere dei folletti. Formule magiche, alchimie, incantesimi.

Che spettacolo, i bambini normodotati.

Rispondono. Interagiscono. Alzano la mano. Lucilla invece si ciuccia l’anulare. Strabuzza gli occhietti. Ride da sola. Non guarda nessuno, ha la faccia rivolta verso l’alto, sempre. Sta lì in un angolo, con gli occhiali appannati e la candela al naso. Parlotta qualcosa di indefinito. Dovrei andare da lei, guidarla. Aiutarla. Darle un fazzoletto, almeno. Ma no. Lei è normale. Lei non è speciale.

Deve fare da sé, deve stare da sola. In mezzo agli altri. Come gli altri.

Un bambino mi si avvicina. È già un ragazzino, in realtà. Occhi azzurri. Magro magro. Dodici anni. È annoiato dalla visita guidata, è per lattanti, penserà. Che palle, i miei.

Mi chiede, con un pizzico di arroganza, dito indice puntato su Lucilla: “Ma è tua figlia, quella bambina?” Mi metto sulla difensiva. Solito marchio della mamma di.  “Sì, che succede? Lei può stare qui. È come voi. È come gli altri”.

Mi dice, sbrigativo: “Come vuoi. Comunque credo abbia ragione. Sta dicendo che le fate sono su, in alto”.

Mi viene da ridere, ma gli occhi mi pungono dietro le ciglia: la guida sta convincendo i bambini che il Piccolo Popolo è nascosto tra insulsi fondali di cartone. Dipinti.

E lei invece parla da sola, guardando le file di lampadine appese al soffitto della sala. Una miriade di lucciole incantate, un portento senza pari.

Ecco: ancora una volta.

Solo lei ha visto. Solo lei ha visto davvero la luce delle fate.