I nostri pomeriggi iniziavano così: sul pullman vicine, a sognare nello stesso walkman, poi un pranzo leggero con le mamme e con le nonne. La pasta no, ché siamo a dieta, noi. E noi la dieta la facciamo insieme. I venti minuti di telefonata, sull’apparecchio fisso, arrotolando il filo tra le dita. A ripetere quello che ci eravamo dette un’ora prima, la mattina. Compiti. Veloci, dai. Altra telefonata e, se andava bene ed era sabato, uscita all’Hopper con tutti gli altri. Ancora birra? No, la Guinness no. Comunque ti guarda. Ma chi? Il tipo della quarta B. No, piantala.
Cuore che batte. Dediche e diari. San Firmino.
Oddio: la cellulite. Ma smettila, non ce l’hai: sei un grissino. A parte che non è vero, comunque grazie, vorrei le tue tette, io. Sí, va beh, io vorrei il tuo sedere! Ma se te lo chiede, tu lo fai? Certo. Forse. Ormai siamo al liceo: certo che lo faccio. Ma no che non fa male. Però al concerto dei Take andiamo, vero? E comunque alla Serena non lo voglio dire, quanto se la mena.
Ventun anni dopo siamo sempre noi, anche se da quasi dieci ci siamo perse di vista. Mirna in pochi mesi ci ha trovati tutti, quelli della terza A. Non volevo venire, alla rimpatriata: che tristezza. Che pena, fare a gara tra chi ha fatto carriera e chi ha la pelle più tirata.
Siamo vecchi. Peggiori. E non abbiamo niente da dire.
Però, dopo quella sera, sei tu che mi richiami e riprendiamo quella strada che avevamo abbandonato, per inerzia, per rassegnazione. Ricominciamo da un aperitivo e una raccolta di segreti. Poi sono mesi di sorrisi. Ricordi. Serate di shopping e parole.
Come sia iniziata, non so. Non l’ho mai voluto sapere.
Mi dai appuntamento alla Baia, solito venerdì. Solito aperitivo. Trovo te. Con mio marito. Siete delicati. Opportuni. Va avanti da tre mesi, dalla cena a casa nostra, noi quattro e il mio bambino. Per l’inizio del Mondiale. Mi strappo una ciocca di capelli, in bagno. La getto nel gabinetto e non tiro l’acqua. La vedo galleggiare informe, come una massa cattiva, un nugolo di rabbia, una vendetta sospesa nel tempo.
“Sta morendo, vieni. Ti vuole così bene”.
Mi chiama una mattina di gennaio tua madre, la voce rotta dal pianto. La tua storia con mio marito non è durata molto. Ma lui è comunque uscito dalla mia vita. Ha usato entrambe, ha usato anche te. E poi noi le cose le facciamo insieme, ti ricordi?
Io, però, non ti ho voluto più cercare. Sapevo che c’eri. A distanza. Sempre per inerzia, per rassegnazione.
E adesso sono qui, davanti a te che esali quasi il tuo ultimo respiro. A te, che sei sempre stata bella. Molto più di me.
Adesso sei bellissima, un fiore rosa e bianco. Che passa.
Non ti parlo. Ti vengo sotto gli occhi. Ti guardo in fondo, nel cuore. No, nella pancia.
Non emetti suono. Non mi chiedi perdono. A che serve? Perdoniamoci insieme. Due metà che un giorno hanno smesso di parlarsi, di camminarsi accanto.
Perché il nostro peccato, il nostro male, non è un tradimento. È l’abbandono.
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