A 24 anni posso avere già le rughe? Sono quelle dei pagliacci. Tra il naso e la bocca.
Mi son venute tutte quella notte in cui ci hanno telefonato. E l’odore del fritto di mia madre non era ancora andato via. Lo abbiamo scoperto così. Che mio fratello spacciava fuori dal Gatsby. Mio fratello. Sì. L’ingegnere venuto su dai palazzi di Rozzano, quelli intorno al parco giochi degli immigrati.
Non ci hanno detto il resto, lì. Al telefono. Hanno atteso che due donne in tuta grigia, scarmigliate, entrassero nel parcheggio dell’ospedale, a bordo di una Panda scassata. Di seconda o terza mano. La faccia del pulotto (come li chiami tu, i poliziotti?) era un ghigno vittorioso, la maschera dell’uomo di giustizia. La superficie appena increspata della persona per bene. “Signora. Suo figlio è stato coinvolto in una rissa. Fuori dal locale. Brutta gente, signora. Gente con cui un ragazzo non si deve accompagnare. Stia calma. Magari ce la fa. Magari lo riporta a casa”. Non aveva una camera, mio fratello. Era piazzato su una barella scalcagnata, accostata al muro del corridoio.
E comunque non era più mio fratello.
La testa era un pallone calciato e scaraventato contro un milione di pali. Gonfia, livida. La sua giacca era tagliata. I pantaloni bucati dietro. In mezzo alle natiche.
Perché? Quanti colpi. Quanta rabbia. Il senso non lo trovo ancora.
Marco, scusa. È colpa mia. No. Non posso ancora. Come faccio a far l’amore se quelle braccia tumefatte invocano il mio abbraccio, appena chiudo gli occhi? Vai, su. Vai, Marco. Lisa c’è. Ti muore dietro. Vai da lei a farti far l’amore.
Marco è uscito. Dalla porta e da me.
Io sono davanti allo specchio del bagno.
La faccia non è più la mia.
È più livida. Come un pallone calciato e scaraventato contro un milione di pali. È l’una.
E ci sono le lacrime di una madre da asciugare. Ma le mie? Chi me le asciuga?
Che domanda. È per quello che mi vengono le rughe.
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