Tic tic tic. Si insinua tra il collo e il bavero, mi dà fastidio, mi fa tremare.
Fosse acida, questa pioggia. Invece è dolce come l’acqua dei fiumi di mio padre.
Non mi piacciono gli ombrelli, mi piacciono le canne da pesca.
E le pistole.
Adesso il ferro lo sento qui sulla coscia, che mi fa ululare dentro, mi dà quei brividi da povero pezzente che si sporca nella strada.
Lei mi aspetta, come tutte le mattine: finisco il turno, mollo il binario e vado a prendermi la mia dose di labbra, di capelli unti, di puzzo di brasato.
Io sono la Morte e lei è una coccinella sulla spalla di un vecchio lasciato sul balcone.
Suono il citofono e la sua voce è roca, il solito suono delle sigarette che si mangerebbe, se potesse.
Mi viene incontro sulle scale. Mi va di frugarla, ma è caldissima, ha la febbre. Il freddo della pistola le fa male.
“Da ieri, sto così. Mi gira la testa, non ce la faccio. Non…”
“Stenditi” la accompagno dentro.
Dormi tu. Io non posso restare, perché io sono la Morte.
Io devo continuare a seminare, a conquistare, a salvare questo mondo infame.
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